ZZALMANACCO-gennaio

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Pubblicato Venerdì, 10 Marzo 2017 08:11
Scritto da Giuseppe
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ALMANACCO-gennaio

Gennaio gennarju – ennarzu, is tres gurreis.

Dal latino Ianuarius, mese di Giano, il dio delle porte e delle città italiche. Secondo la leggenda romana fu costruttore della Rocca del Gianicolo. Il tempio di Giano aveva due porte, una di fronte all’altra. Queste rimanevano chiuse in tempo di pace, ed invece aperte in tempo di guerra. Il nome del mese è legato quindi al dio Giano, che deriva da ianua = porta. Anche in sardo abbiamo iànna, ènna, gènna. Gennaio è dunque la porta dell’anno.

Parafrasando Leopardi:

Unu piccioccu ki bendit tzaravàllius,

 a u’ sennori ki passat bia, bia:

“Tzaravàllius, tzaravàllius po su 2009;

fusteti dhu bollit, su sennòri”?

“Naramìdha, piccioccu,

e cumenti hat a essi s’annu nou?

Hat a essi bellu, hat a essi malu”?

“Su sennòri, hat a essi bellu, bellu”!

“Naramìdha piccioccu,

hat a essi prus bellu dess’annu ki est passau”?

« Sissi su sennòri, prus bellu, prus bellu » !

« Naramìdha piccioccu,

hat a essi prus bellu

de is annus ki eus connòtu » ?

«  Prus bellu, prus bellu, su sennòri”!

Traduzione (letterale)in italiano

Un giovane venditore di Almanacchi

Ad un signore che incontra in strada.

“Almanacchi, almanacchi per il 2009!

Voi, lo acquistate signor mio”?

“Dimmi, giovanotto

e come sarà l’anno nuovo?

Sarà bello o sarà brutto”?

“Sarà bello, bello, signor mio”!

“Dimmi giovanotto,

sarà più bello dell’anno che è passato”?

“Più bello, più bello, signor mio”!

“Dimmi, giovanotto,

sarà più bello degli anni conosciuti”?

“Più bello, più bello, signor mio”!

 Il nuovo anno è sempre salutato con simpatia e con la speranza a migliorare. È pura utopia, perché la storia insegna che c’è un legame stretto ed inscindibile tra passato, presente e futuro. Anche quando l’anno nuovo è d’ingresso ad un nuovo millennio, come lo fu l’anno duemila: accolto con grande gioia da papa Giovanni Paolo II, che lo proclamò anno di Giubileo, cioè anno di “gioia” per tutti i cristiani del mondo. Mentre “altri”avevano preannunciato la fine del mondo, invitando tutti a prepararsi al trapasso universale. Per i quali era arrivato dunque il Giorno del Giudizio: dies illa.

Fatti e previsioni, suggerirono in me questa canzone:

Dies illa, dies illa.

Si sciait su mundu,

propiu in su duamila!

“Hat a essi prus bellu,

hat a essi prus mau,

su tertzu millenniu

dessu ki nc’est passau?

“Prus bellu, prus bellu”!

Narat su bendidori

De tzaravallius.

Dei aici hanti nau

Cogas e magus,

ma serbit fetti

a fai su burdellu!

Dies illa, dies illa

Su mundu si sciait

In su duamila.

De Nostradamus

Scieus sa cristioni,

Ca in su duamila

Si sciait su mundu,

Maria e Gesùsu

Tzerriaus in cantzoni

Po no si sarvai

De su sperefundu.

Dies illa dies illa.

Pinnicausì in tundu,

ca in su duamila

si sciait su mundu!

De pampa manna

S’hat abbruxài

Tottu su mundu

Cun s’humanidadi

A lambrigas longas

Nos eus a itzerriài

Gesùsu e Maria:

pedronu y amistadi.

Dies illa, dies illa,

propiu in su duamila

su mundu s’hat a sciai

e nudda podeus fai.

Unu alluvioni

De fogu hat a essi

A preni fruminis

Arrius e baulodrus,

mannus, pittius,

arriccus e poburus

nci hat a tirai,

de pressi, de pressi!

Dies illa, dies illa;

In pampa manna

In su duamila 

Tottu su mundu

si nd’hat andai,

hominis e bestias

nci hat a tirai!

Nostropeppus!!!

Traduzione (letterale) in italiano.

Dies illa, dies illa,

si sfascerà il mondo

proprio nel duemila.

Sarà più bello,

sarà più brutto,

il terzo millennio

di quello passato?

“Più bello, più bello”!

Dice il venditore

Di almanacchi.

Così hanno detto

Streghe e indovini.

Ma serve soltanto

A far confusione.

Dies illa, dies illa,

si sfascerà il mondo

proprio nel duemila.

Di Nostradamus

Sappiamo la previsione:

che nel duemila

si sfascerà il mondo;

Maria e Gesù

Chiamiamo in coro

Per salvarci tutti

Dal profondo inferno.

Dies illa, dies illa,

raggruppiamoci in tondo

che nel duemila

si sfascerà il mondo!

Per un gran fuoco

Brucerà il mondo,

con l’umanità.

In forte pianto

Tutti chiederemo

A Gesù e Maria

Perdono e pietà!

Dies illa , dies illa,

si sfascerà il mondo

proprio nel duemila

e nulla possiamo fare!

 Una grande tempesta

di fuoco ci inonderà

e riempirà ruscelli,

fiumi e mari.

Grandi e piccoli,

ricchi e poveri,

trascinerà via!

In fretta, in fretta!

Dies illa, dies illa,

in un gran fuoco

proprio nel duemila

tutto il mondo

se ne andrà

uomini e bestie

con se trascinerà!    (Peppe)

6 Gennaio: Epifania: Sa Befana; sa dì de is tres Gurreis: il giorno dei re magi. Epifania deriva dal greco (Epifanèia) Επιφάνεια, che significa miracolo, manifestazione: una delle  più importanti per i cattolici; cade il  6 gennaio e corrisponde alla visita e adorazione del Bambino Gesù da parte dei Re Magi. Nella liturgia bizantina la manifestazione più importante era ed è il battesimo di Gesù nel Giordano: San Giovanni Battista, 24 giugno. Per i bambini la Befana è quella “adorabile strega”, che porta tanti doni. Quand’ero bambino scrivevo alla Befana: “Cara Befana, per tutto l’anno ho fatto da bravo, a casa e a scuola, portami la bicicletta”! Risposta della Befana: “Caro Pinuccio – mi chiamava così – hai fatto da monello etc. etc. e la Befana ti ha portato “carbone morto””! Mi dovevo accontentare, mio malgrado, della vecchia e sgangherata bicicletta di mio padre, col quale, per averla, anche per poco tempo, dovevo immancabilmente litigare!

17 gennaio: Sant’Antonio abate.

Qui da noi è comunemente chiamato Sant’Antoni de su fogu (del fuoco) o Sant’Antoni de is procaxus (degli allevatori di maiali e degli allevatori in genere). Sulla vita del Santo, molta parte è leggenda. Nato ad Eracleopoli, nel Medio Egitto intorno al 250 d. C., nel 270 scelse la vita di eremita e per 15 anni visse nel deserto, nel più completo isolamento ed in preghiera, durante i quali anni, si dice, fosse stato tentato e tormentato in continuazione dal demonio. In seguito si trasfer’ in un castello, lungo la riva sinistra del Nilo, seguito da una moltitudine di discepoli. Poi tornò alla vita di eremita nelle rive del Mar Rosso. Morì nel 356, all’età di 106 anni. Le sue reliquie furono portate ad Alessandria d’Egitto nel 561 e successivamente a Costantinopoli. Nell’XI° secolo (1070), i suoi resti furono trasferiti nel Delfinato in Francia, in una chiesa a lui dedicata, nel villaggio di La Motte nei pressi di Vienne (vedi nel Web –Antono Abate-). Sembra che il territorio fosse stato colpito da una epidemia di Erpes Zoster (da noi comunemente chiamato su fogu de Sant’Antoni, che altro non è che una eruzione cutanea o esantematica, che colpisce le zone intercostali, o facciali o anche altre parti del corpo. È provocato dallo stesso virus della varicella. Per molti esperti si tratta appunto della varicella contratta da adulti. Nella parte colpita si formano grosse vescicole, generalmente accompagnate da forti bruciori e dolori, che possono persistere a lungo, anche dopo la guarigione delle lesioni cutanee. È usanza, da noi, ma non solo, quando uno è colpito dal “fuoco” di S. Antonio, chiedere, per la sua guarigione, di casa in casa una moneta, la più piccola, altrimenti chiamata, l’obolo di S. Antonio. Il ricavato della questua si da al parroco per la celebrazione di una messa in onore del Santo, in modo che favorisca la pronta guarigione. A parte l’utilità o meno del rito e della questua e gli esiti più o meno positivi di tutta la manifestazione, la maggior parte della nostra gente, crede veramente che il Santo possa operare il miracolo. Quindi che la scienza medica confermi o meno l’usanza, per chi crede ha ben poca importanza! In molti paesi della Sardegna e non solo, il giorno di S. Antonio si accendono i fuochi nelle piazze, in onore del Santo( Su Fogaroni de Santu Antoni), che viene raffigurato generalmente nelle immagini, con un maialino, perciò detto Sant’ Antoni de is procaxus = S. Antonio dei porcari. Per confermare la credenza ed ancor più per chiamare a raccolta tanta gente, per la festa, quando cessano le fiamme lasciando il posto alle braci ardenti, numerosi spiedi con infilzati altrettanti maialetti, anticipano quella che sarà la grande abbuffata, accompagnata da “decalitri” di vino novello; allora la festa per tutti i presenti diventa molto più coinvolgente: chi è scemo resti a casa! 

La tradizione: il pane fatto in casa in Campidano( su pani fattu in domu).

Per la massaia sarda, fare il pane in casa era l’impegno più grande. Primo compito era quello di mettere in un catino - “sa sciveddèdda”- di ceramica, il lievito di frumento – su fromentu – (che non deriva dal latino frumentum = grano, bensì da fermentum = lievito); questo poi si versava in un grosso catino, sempre di ceramica – sa scivèdda de cummossai – il truogolo per impastare. Si versava quindi la farina – sa fàrra -, che veniva impastata insieme al lievito, a mano, con l’aggiunta di acqua tiepida e della giusta quantità di sale. Il tutto avveniva sopra un tavolo detto appunto sa mesa de cummossai e de fai su pani (il tavolo per impastare e per fare il pane). Prima di impastare la buona massaia consacrava il suo impasto col segno della croce, per ricordare che era dono di Dio. Finito l’impasto – cummossàda o ciuètta (dal latino subigere)beni, beni sa farra, preparava le forme con le cestelle (is covinus): i pani grandi = is moddixinas; le focacce = is ladas; il pane duro = su coccòi (di semola – simbula); su civraxu = il pane nero, di cruschello. Il resto toccava al forno a legna, (preparato a puntino e non era cosa facile portarlo alla giusta temperatura) e alla vigilanza continua della brava massaia: ogni sfornata doveva essere un capolavoro. Il pane, solitamente veniva preparato una sola volta per tutta la settimana e certo, appena sfornato aveva una fragranza indescrivibile, ed anche dopo diversi giorni si manteneva buono. Nonna Fosci mi ricordava sempre con quanta ansia i minatori di Ingurtosu e Naracauli, attendevano le loro donne, che portavano in miniera, insieme alle provviste della settimana, anche il pane fresco: le donne di Gonnosfanadiga raggiungevano i loro uomini in miniera, a piedi, per i sentieri di montagna (is mòris) di Sìbiri, sa Pèdra Marcàda, Ingurtosu, Naracauli (circa 25 km.), con le ceste (is crobis) ben ricolme, in testa (a cùccuru).

Racconto del mese:

Storia di un piccolo pettirosso.

“Quando le giornate erano chiare, pur col freddo intenso di gennaio (1°), gli operai della miniera consumavano il frugale pasto all’aperto; disposti in cerchio, su dei sassi, con al centro un bel fuoco di frasche secche. L’aria gelida, ma pulita, rinfrancava i polmoni intasati di polvere: le mani callose, i volti anneriti, rugosi, segnati da fatica e sofferenza; la mente lontana a cercare visi noti di compagni rimasti in guerra (2°), in Spagna, in Grecia e i più sfortunati, fra i ghiacci della steppa…essi invece, a sudar nelle viscere della terra, erano i più fortunati! In una di quelle splendide, fredde giornate, durante il pasto, la comitiva, ebbe una strana visita: un piccolo pettirosso(3°), intirizzito ed affamato beccava timidamente le briciole cadute dalla pagnotta di un minatore. Gli sguardi veloci si posarono sulla bestiola infreddolita. Per tutti fu una cosa meravigliosa: cinque o sei beccate e via sul ramo vicino; di nuovo a terra e poi sul ramo. La sirena richiamò i minatori al lavoro, interrompendo l’incantesimo. Il giorno dopo, all’ora del pasto, più atteso del solito, i minatori si disposero, attentamente, come il giorno precedente, quasi per un rito dovuto e quanto speravano, avvenne: l’uccellino, saltellava felice in mezzo al gruppo e con le sue veloci beccate alleviava un po’ la tristezza  di quei visi scuri! Al terzo giorno, pioggia e grandine impedirono il pasto all’aperto. Al ritorno in paese non ci furono parole di commento, ma solo il suono stridulo dei freni delle biciclette, nella discesa! E fu così per diversi giorni. Ma tornarono le belle giornate, il pasto all’aperto, le visite del piccolo pettirosso ed il sorriso su quei volti turbati. E fu così per giorni e settimane. A primavera arrivarono due giovani reclute, che si unirono, sin dal primo giorno, alla comitiva per il pasto all’aperto: essi non furono avvertiti della strana visita. Erano tutti in cerchio, a sbocconcellare la pagnotta, quando apparve l’uccellino: “Ma quale spettacolo, indesiderato, si presentò ai loro occhi? Increduli, meravigliati videro la bestiola stramazzare, colpita da un malaugurato sasso, scagliato, con estrema precisione dall’impietosa mano di uno dei nuovi arrivati: l’incantesimo finì tosto! Agli inutili soccorsi, seguì dolore e rabbia. Il giovane minatore si rese conto subito della  gravità del suo gesto, ed evidenziando il suo pentimento, chiese ripetutamente scusa, con le lacrime agli occhi. I minatori capirono e perdonarono! Di pomeriggio, nella discesa al paese, poco dopo il ponte di Piras, i minatori tutti, fermarono le biciclette, scelsero il luogo adatto, sul ciglio della strada, e vi deposero, con affettuosa tenerezza, la piccola salma, ricoprendola con un mucchio di sassi ed una crocina di legno al centro"!

A distanza di oltre mezzo secolo, qui nel borgo di Gonnosfanadiga, molti ricordano ancora la “storia” del piccolo pettirosso della Miniera di Perd’’e libera”!

1°) a metà gennaio del 1943.

2°) Stalingrado: ( 2^ guerra mondiale)2^ -  3^ settimana di gennaio 1943.

3°) il pettirosso qui da noi è chiamato su printzi; in altre parti della Sardegna si chiama: traddèra, brabarrùbia, zikì, ghisu, ghisèttu, tziddì, etc.

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