ZZALMANACCO-ottobre

Valutazione attuale:  / 0
ScarsoOttimo 
Dettagli
Pubblicato Domenica, 12 Marzo 2017 19:23
Scritto da Giuseppe
Visite: 1404

ALMANACCO-ottobre 

Ottobre . Mesi de Ladàmini. Si preparano i campi per l’aratura e una delle cose più importanti è la concimazione. Un tempo non c’erano i concimi chimici, pertanto si usava unicamente il concime naturale, cioè il letame: su ladàmini.

Ad Ottobre termina la vendemmia (sa binénna), iniziata, per le uve rosse, nell’ultima settimana di settembre. La parola vendemmia deriva dal latino vindemia = vinum demere, letteralmente togliere il vino dall’uva. Non sappiamo con precisione quando impiantarono le prime vere e proprie vigne in Sardegna, ma senz’altro bisogna risalire al periodo della dominazione romana. Un discorso a parte si può fare per il vitigno nuragus, che molto probabilmente fu portato nell’isola dai Fenici. Non sappiamo con esattezza quando i fenici siano arrivati in Sardegna, ma li troviamo nell’isola in piena Civiltà Nuragica, verso il X° secolo a. C. in alcuni punti strategici, che divenirono loro colonie, come Caralis, Nora, Bithia, Sulci, Tarros, Othoca, Neapolis etc. Lo stesso termine nuraghe deriva dalla lingua fenicia (semitico), dalla radice “nur”  = dimora + “hag” = stabile, fissa (secondo lo studioso canonico Giovanni Spano). Durante la dominazione bizantina, a partire dal VI° secolo, i monaci greci introdussero in Sardegna tantissime nuove colture, tra cui molti vitigni, ed insegnarono ai sardi le tecniche di impianto, di potatura, di raccolta, trasformazione e conservazione. Nella Carta de Logu, documento in lingua sarda della fine del XIV° secolo, dell’ultima fase del periodo giudicale,  alcuni capitoli sono dedicati alla coltura della vite. Il capitolo CXXVI°, in particolare, stabilisce le norme sul commercio del vino: dessos carradoris chi portant vinu = dei carrettieri che trasportano vino…et eziandeus nen illoy depliant bitter abba, nen attera miscoladura, pena de machicia (di multa) soddos centu a sa Corti, pro ciascaduna volta, chi contrafagherint et esserit illi provadu…(che non si aggiunga acqua, né altro intruglio al vino).

Preparazione alla vendemmia: a settembre si ripuliscono le botti dai residui (is carràdas e is cuponis de sa fèxi) per ricevere il mosto per la fermentazione. È un lavoro che viene fatto con estrema attenzione ed in maniera meticolosa. L’ultimo lavaggio delle botti viene fatto con “sa mussa”, che è un decotto di frutta, solitamente mele, pere, fichi secchi ed altro. Poi le botti vengono inzolfate (allukkittàdas), con “su lukkìttu” (che è una cordicella di bambagia inzolfata, per medicare appunto le botti), e chiuse col tappo di sughero in attesa di ricevere il mosto novello, per la fermentazione.

La vendemmia: era, un tempo, una vera e propria festa per tutti. Moltissime famiglie, in questi nostri paesi avevano il proprio vigneto, per la provvista familiare e per venderne qualche litro se l’annata era buona. Era il capo famiglia (pater familias) ad addossarsi la maggior parte degli oneri per la cura della vigna, alla quale accudiva nei ritagli di tempo, nei momenti di libertà, senza mai trascurare la professione o il lavoro. Era quasi un hobby, anche perché il vino era considerato uno spreco e se ne poteva fare a meno, se naturalmente lo si doveva comprare. Era appunto il genitore che nei giorni stabiliti per la vendemmia, il sabato e la domenica, per non perdere giornate di lavoro, prima dell’alba si recava nella vigna per predisporre la raccolta dell’uva: toglieva i cespugli d’ingresso (is cugùtzus de su jàssu), che ripuliva con cura, per rendere libero il passaggio, quindi stendeva vicino un grosso telo, possibilmente impermeabile, nel quale si depositava l’uva raccolta con i cesti di canne (is cadìnus), in attesa dell’arrivo del carro a buoi, munito di tino (sa cubidìna). Quando già il sole faceva capolino ad oriente, arrivavano famigliari e parenti in genere, muniti di ferri e coltelli e con la grande “brama” di staccare i turgidi grappoli dai carichi tralci (is tronis de is carriadròxas). I canti ed il vociare dell’allegra compagnia si univano a quelli delle altre allegre brigate: per l’intera campagna era gran festa -…//Te beata gridai, per le felici // aure pregne di vita, e pei lavacri // che da’ suoi gioghi a te versa Apennino! // Lieta dell’aer tuo veste la Luna // di luce limpidissima i tuoi colli // per vendemmia festanti, e le con valli convalli(?) // popolate di case e d’oliveti // mille di fiori al ciel mandano incensi //…- (Ugo Foscolo – Dei Sepolcri vv.165/172).

Per bambini e ragazzi della scuola il sabato mattina, stare sui banchi invece che tra i filari era un vero e proprio calvario, ma l’ordine del genitore era indiscutibile: “Di mattina a scuola, in vigna al pomeriggio, e poi, c’è anche la domenica”!

Riempito il tino di bei grappoli si rientrava a casa per la pigiatura: a fianco ai buoi il carrettiere (su carradòri) e dietro tutta la comitiva; sul carro, negli spazi a fianco al tino, i bambini che si erano comportati bene. Dietro a tutti, con leggero ritardo, il capo famiglia, che, dopo aver controllato che tutto fosse a posto, ed aver rimesso nell’ingresso i cespugli di rovo, per evitare l’ingresso alle pecore, chiudeva la retroguardia, ma prima dell’ingresso in paese riguadagnava il primo posto, a fianco al carrettiere, anche perché era suo compito offrire un bel grappolo ai bambini dei vicinati, che si appressavano al carro; e poi era lui che, precedendo il gruppo, apriva il cancello (sa gècca) del cortile di casa per far entrare il carro, per la pigiatura (s’accacigadùra) dell’uva. Il pigiatore (s’accacigadòri) quindi, a piedi nudi, dava di calcagno, sfogando chissà quanta ira pregressa sui quei poveri ed innocenti grappoli, iniziando dalla parte posteriore del tino, dove era sistemato il foro per la fuoriuscita del mosto. Sotto il quale veniva piazzata una tinozza (sa cubidinèdda) per ricevere il prezioso liquido, che veniva di mano in mano spillato con una piccola conca di sughero (sa metzòba (*1) de ortìgu) e versato prima dentro i decalitri e poi nella botte (sa carràda), ben sistemata nella piccola cantina. Per ogni decalitro versato si metteva da parte, per il conteggio, un acino d’uva (unu pibiòni de àxina). Terminata la pigiatura, il tino veniva ripulito delle vinacce ancora “grasse” (s’enàtza), che venivano sistemate dentro tinozze per la preparazione del vinello (su piricciòlu), per la cui preparazione era opportuna particolare attenzione. Intanto il carrettiere era già lì per riprendersi carro e buoi (su jù), con evidenti segni di impazienza. Le vinacce venivano ripulite pazientemente dei raspi (sa scòva) e quindi nelle tinozze veniva versato una percentuale minima di acqua di fonte(circa il 10%: doveva poi risultare a fine torchiatura; ma un viticoltore “esperto” sbagliava di raro). La torchiatura avveniva dopo 24 ore circa di fermentazione, la domenica pomeriggio, e finiva quando ormai era già buio. Solitamente il lavoro veniva terminato dal capo famiglia e legittima moglie, poiché i bambini non si perdevano certo i giochi dell’oratorio, e ragazze e giovani, non potevano rinunciare alla passeggiata della domenica pomeriggio lungo la strada principale del paese!

E mentre il marito finiva di sbarazzare, la moglie preparava la cena. Prima di cena il capo famiglia, “assicurava” le botti per la fermentazione del mosto (su mùstu): la soddisfazione era in rapporto alla produzione, per quantità e qualità! Quanto detto è in riferimento alle uve bianche, che comprendevano la maggior parte delle vigne.  Le uve rosse subivano e subiscono un trattamento diverso. Infatti dopo la pigiatura, venivano e vengono depositate dentro dei tini per la prima fermentazione, della durata di circa 6 giorni, prima della torchiatura. Se invece il mosto delle uve rosse viene messo nelle botti dopo la pigiatura, procedimento che in sardo viene chiamato”fattu e craccàu”, non si ha un vino rosso scuro bensì di colore paglierino scuro, che in lingua sarda prende il nome di “ogu de perdìxi” = occhio di pernice.

(*1) > metzòba de ortigu > metzòba, mitzòla: bellissimo termine sardo per indicare un rudimentale mestolo, fatto di sughero, a forma di grosso cucchiaio ( utensile per bere l'acqua dalla sorgente): il termine deriva da mitza ( bizantino) = sorgente. Nelle sorgenti del territorio di Gonnosfanadiga, numerosissime, curate, apprezzate e storicamente documentate, non mancava mai sa metzoba per i visitatori assetati.

Primo lunedì di ottobre – Santa Vitalia di Serrenti. La data coincide talvolta con l’arrivo delle grandi piogge autunnali: una famosa rima recita: “ Santa Vida de Serrénti, Santa Vida de Serrénti // po nexi de proi meda do-y andat pagu genti // (Santa Vitalia di Serrenti, Santa Vitalia di Serrenti // poiché piove tanto ci va poca gente//). Non è neppure vero, perché è una tra le feste religiose e popolari più partecipate di tutto il Medio Campidano. Sta di fatto che io personalmente ci sono stato diverse volte e mai che abbia piovuto.

Santa Vitalia o meglio Santa Vida, vergine e martire sarda, venerata in tanti paesi dell’isola, trova a Serrenti la culla del suo culto, il suo Santuario più famoso e la sua festa più partecipata.

Padre Fortunato Ciomei, passionista, studioso e storico della chiesa cattolica, nel suo libro “Gli antichi Santi e Martiri della Sardegna”, traccia, in maniera esauriente ciò che rimane nella tradizione della vita   e del martirio di Santa Vitalia: > Originaria di Cagliari, fervente cristiana, al tempo dell’imperatore Adriano (compare la data del 120 d.C.), fu condotta davanti al magistrato, processata e successivamente sottoposta a vari tormenti ed infine fu trafitta con una lancia e poi decapitata, insieme ad un’altra giovane martire cagliaritana di nome Lucifera, che fu trafitta con tre frecce. In questo caso la tradizione va contro la storia, che invece ci riporta l’imperatore Adriano come non persecutore di cristiani, dai quali, tra l’altro era ritenuto “buono come il pane”! Ma dobbiamo anche tenere conto del fatto che la Sardegna era una provincia lontana da Roma e che poteva sfuggire al controllo.

Nella chiesetta di Santa Vitalia di Cagliari, costruita dai bizantini tra il VII° e l’ VIII° secolo, nelle vicinanze della Basilica di San Saturnino, furono deposte le sue reliquie, con la lapide recante la scritta funebre: HIC IACET B M BITALEA. Nelle rovine della chiesetta dissacrata furono ritrovate, nel 1634, le reliquie e la lapide, che poi, nel 1725, furono deposte, insieme alle reliquie di Lucifera, nella Cattedrale di della Madonna di Bonaria, dove attualmente si trovano, in due loculi distinti, in cui si vedono: Santa Vitalia trafitta da una lancia e Santa Lucifera trafitta da tre frecce. Però le lettere B, M e la datazione della lapide corrispondono al VII°, VIII° secolo, cioè all’epoca in cui fu costruito il tempietto bizantino e scolpita la stessa lapide. Siamo nel periodo della persecuzione vandalica e le lettere B, M come anche per Santa Greca, corrispondono all’uso di quel periodo e quindi possono significare Beata Martyr, quanto Bonae Memoriae o anche Bene Merenti. Il nome Vitalia non è propriamente sardo, ma diffuso nel mondo latino cristiano d’Africa, insieme a Vitale e Vitaliano. Abbiamo infatti ben tre vescovi col nome Vitale e Vitaliano, nella lista dei convocati a Cartagine nel 480 da Unnerico.  Gli abitanti di Serrenti rivendicano non solo il passaggio di Vitalia nel loro territorio, ma, nella collina dove sorge oggi il bellissimo santuario, anche il luogo di morte della Santa Martire.

È difficile provare con certezza cose di cui non abbiamo documentazione certa, ma solo la tradizione, pur chiara, come lo stesso padre Ciomei evidenzia. L’esempio di Santa Vida, mi riporta, essendo io di Gonnosfanadiga, a Santa Severa (vedi nel sito, “Feste e d Eventi di Sardegna” > Santa Severa di Gonnosfanadiga), del cui martirio si sa poco o niente, ma sta di fatto che il nome di Severa, di Severo, dei Severi (nobile gens romana) era diffuso assai in Africa, a Cartagine, al tempo del martirio della Santa.

6 ottobre 1820: Il re di Piemonte e di Sardegna Vittorio Emanuele I° promulgò (per la Sardegna), l’Editto delle Chiudende (in verità fu reso pubblico nel 1823) secondo cui i sardi potevano impadronirsi delle terre pubbliche o libere, che costituivano la maggior parte di tutto il territorio isolano, con una regolare domanda allo Stato e pagamento di una modica cifra, con diritto inoltre alla recinzione della nuova proprietà. Sarebbe stata una buona legge, in pieno rispetto dell’antico diritto romano sulla proprietà privata, se però non avesse scatenato una vera e propria faida tra pastori e agricoltori, per la questione delle recinzioni, alle quali i pastori non erano assolutamente abituati, ma soprattutto perché permise ai più furbi ed ai potenti (ancor più prepotenti), di appropriarsi, nella maniera più vergognosa, delle terre altrui e soprattutto delle terre comunali. La Sardegna, in tutto il suo territorio, fu “ricamata” di muretti di pietra senza malta, che segnavano i confini delle proprietà. Muretti ancora oggi visibili nei pendii collinari e montuosi. Per quanto io so, solamente il territorio comunale di Orgosolo rimase libero, per il fatto che i suoi abitanti respinsero in maniera categorica tali disposizioni (vedi nel Web> Editto delle chiudende – Vikipedia).

Ottobre(?) 1716: nasce a Sassari Giuseppe Maria Pilo. Da giovane entra nell’ordine dei carmelitani e si distingue per il grande talento e per le eccezionali qualità di predicatore. La sua fama conquista  ben presto l’intera Sardegna. Si lega d’amicizia con grandi e validi uomini de suo tempo, tra cui il ministro del re di Sardegna Giovanni Bogino, col quale collabora in diverse opere, ma soprattutto per diffondere nell’isola i “principi razionali dell’agricoltura”. Fu vescovo della diocesi di Ales – Terralba per ben 23 anni, durante i quali compì grandi opere per la gente della sua diocesi ed in primo luogo per i poveri, con i quali spartì sempre le sue sostanze, sacrificando infine se stesso per la loro causa. Morì povero, a Villacidro, dopo aver disposto che tutte le sue sostanze venissero date alla parte più povera della gente, che sempre aveva servito da perfetto cristiano! (vedi nel Web: > l’opera di mons. Giuseppe Maria Pilo nella diocesi di Ales…1761…).

27 ottobre 1917 – Ritirata di Caporetto: una data tristemente indimenticabile per la Storia d’Italia. Per l’impreparazione degli alti comandi militari, l’esercito italiano, durante la Prima Guerra Mondiale e per noi anche Quarta Guerra per l’Indipendenza, subì, da parte dell’esercito austriaco, rinforzato da reparti dell’artiglieria tedesca, provenienti dal fronte russo, una gravissima sconfitta a Caporetto, sul fronte del fiume Isonzo. La “ritirata” fu clamorosa e disordinata e con esiti drammatici: 40 mila soldati italiani massacrati e 300 mila prigionieri, deportati in campo di concentramento.

Un “simpatico” aneddoto ci fa capire quanta sensazione negativa avesse suscitato tale disfatta anche qui in Sardegna, pur tanto lontana, ma anche tanto vicina, perché ben 100 mila giovani sardi erano lì a combattere per una causa comune a tutti gli italiani.

“Zio Peppino Concas, fratello di nonno Salvatore, validissimo ed astuto cacciatore (così lo ricordano gli abitanti di Gonnosfanadiga), durante una battuta di caccia al cinghiale, assistette, suo malgrado, ad una scena che destò in lui viva preoccupazione: il suo cane da caccia “Abìstu” (che significa provetto), ritenuto uno dei migliori segugi di tutto il territorio del Monte Linas, batté in ritirata, inseguito da un grosso cinghiale. Da quel giorno zio Peppino cambiò il nome del suo cane, da Abìstu in Caporetto!”

Ottobre di fine ‘800: scandalo a Fluminimaggiore, ovvero: quando le donne di Flumini andavano a seno scoperto (di Rosaria Preite)! Dal “Diario di viaggio del Conte Stanislao Grimaldi del Poggetto, o meglio: “Ricordi di un ufficiale dell’antico Esercito Sardo”, pubblicato nel 1891. L’autore, a proposito di Flumini Major, racconta(vedi nel Web Stanislao Grimaldi del Poggetto: memorie di un grande viaggiatore.): “…dopo due ore di cammino attraverso i sentieri di montagna, impraticabili per qualsiasi altro che per il cavallo sardo, giungemmo alla foresta di Antas, una delle più imponenti e grandiose che io abbia mai visto nei miei viaggi. Querce secolari, sugheri giganteschi, olmi, abeti, mirti e lentischi giammai abbattuti, né diradati da veruna scure, formavano un alto duomo di verdura che ci nascondeva la vista del cielo…Dopo altre due ore giungemmo finalmente a Flumini Major e chiedemmo ospitalità in una ricca  famiglia di quel importante villaggio. Dovevamo trovare gli antichi usi sardi in tutta la loro pienezza e senza alterazioni. La posizione  di questo paese, isolato dai monti, lontano dai centri e privo quasi di strade praticabili, gli aveva conservato l’impronta sua propria, e questa  era appunto la causa che ci spingeva  a visitare quella località. La padrona di casa era una bella matrona di trentacinque anni e due sue bellissime figlie , già nubili, vennero ad accoglierci. Il nostro ospite e la sua famiglia tutta, portavano lo schietto abito alla sarda, come usano in quelle montagne. Le donne avevano un costume assai curioso, con gonnella in lana a colori vivaci e numerose pieghe. Sul petto poi e sulle braccia non avevano altro che una camicia bianca ricamata , divisa sul seno, e non ritenuta se non che presso  al collo da due grossi bottoni in filigrana d’oro; una cintura di velluto a guisa di busto bassissimo serrava la camicia alla vita, e nei vari movimenti che loro occorreva fare, si scorgeva appena nascosto il ricco sviluppo delle loro attrattive. Rimanemmo sorpresi a tal vista, che era tanto più strana quanto più quelle donne erano leggiadre e appariscenti. Quando poi dopo un copioso pasto uscimmo a visitare il villaggio, scorgemmo come quel costume che ci era parso quasi indecente fosse quello di tutte le donne del paese. A questo proposito ci venne narrato un curioso fatterello. Era stato nominato un anno prima un sacerdote piemontese a vescovo di Iglesias; questi facendo visita pastorale  per conoscere la sua nuova diocesi, capitò  a Flumini Major, ed ebbe ospitalità in quella medesima famiglia, come la più ricca e più devota del luogo. S’immagini ognuno, se noi militari fummo stupiti da quella foggia di vestire, quanto ne dovesse rimanere scandalizzato il buon monsignore! Dopo le funzioni montò in pulpito e fece una lunga predica sulla modestia, insistendo sulla riservatezza delle donne e sulle sconvenienze delle troppo libere acconciature. Poscia parlatone in privato al parroco, gli disse di ribattere sull’argomento, mentre egli avrebbe mandato presto da Iglesias trecento fazzoletti da distribuire alle donne del paese per coprirsi il seno, e così fece. Sei mesi dopo volle tornare a Flumini Major per vedere il buon risultato delle sue ammonizioni e dei suoi fazzoletti. Gli abitanti gli andarono incontro a festeggiarlo, e tutte le donne portavano sì i fazzoletti regalati da Monsignore, ma non li avevano posti sul seno, ma sul capo ove supponevano accrescessero la loro bellezza. Il buon vescovo fu dolentissimo a quella vista  e sceso a casa dei suoi ospiti, prese a parte quelle brave donne  e rimproverò loro quello scandalo. “Eh Monsignore! Che scandalo vuole che sia? Siamo tutte messe a quel modo da secoli e mai nessuno se ne offese…e poi senta, la mercanzia che non si vede non si compra, ed io voglio maritare le mie ragazze; del resto se Dio ci ha fatte così, avrà avuto le sue ragioni, n’è vero”? E detto ciò la padrona continuò ad affaccendarsi con le figlie per ricevere degnamente l’illustre suo ospite, e non fu altro. Non so se il vescovo abbia creduto opportuno mandare altri fazzoletti, ma se lo fece, questi erano certamente serrati nei cassetti quando visitammo quel curioso paese…!!!

Oggi questo famoso fazzoletto è saltato di nuovo fuori, così come si può vedere durante la processione di S. Antonio da Padova e di Santa Maria, sui seni delle donne di Fluminimaggiore. Forse alla fine le insistenze del Monsignore ebbero la meglio? Infatti sopra a su “gipponi”, che è una giacchetta che si appunta sotto i seni, le donne di Flumini “montano”, con un rituale complicatissimo, che prevede l’utilizzo di decine di spilli, “su muccadori de tzugu”, che è appunto il famoso fazzoletto, che, partendo dalle spalle va ad incrociarsi sotto il seno, coprendolo interamente (vedi nel Web – il costume tradizionale di Fluminimaggiore-). Sembra veramente un pezzo aggiunto in più in un secondo tempo, altrimenti perché non coprire di più con su gipponi? O metter sotto su gipponi una camicetta, come fanno nelle altre parti della Sardegna? Tutto ci fa supporre che la storia del Conte Stanislao Grimaldi abbia un fondo di verità!

A proposito, i “maschietti” di Fluminimaggiore e non solo, chiedono con insistenza che nelle sfilate di costumi, vengano ripristinate le “antiche usanze”!...vescovo permettendo, naturalmente!

Il racconto del mese.

Su contu de Cixiréddu.

De is contus ki nosi contàt ayaya Garau, bodditus me is bibbas de su Campidanu ‘e Mesu, abini issa andàt a bendi saccus ‘e orbaci e miggias e sciallìnus, imoi si contu custu:

 

Nci fiat una borta in una de –y cussas biddixèddas ‘e Pranu, una fémmina , coyàda de meda, ma no tenìat fillus. Deus no ndi dh’ iat donàu e issa, pobirìtta, ca fiat accosténdi s’edadi de no ndi podi prus teni, candu andàt’ a cresia, pregàt’ a Gesusu ki dh’ essat cuntzediu sa gratzia. Su vicariu, ca jei ascurtàt is animas cosa sua, dha consobàda e dhi naràda de teni passientzia e spera in Deus. Issa, miserina e trista si ponìat pentzamentu po su pobiddu puru, ca jei dhu biat cumenti scringàt is neborèddus: ma issu fiat homini e circàt’e cuai is sentidus suus.

Una bella dì toccau iat ass’enna u’ parixéddu de fra’ Nàssiu, pro sa limosina e dh’ iat pedìu una tass’’e acqua puru. In su mentris issa dh’ iat contau de is cosas suas e de su disiju de teni unu pippiéddu. Su para, de sigumenti dha bolìat ajudài, dh’ iat arrecumandàu accumenti depìat fai: “Ascurtit, bona fémmina, devétti mi ndi seu andàu, fustei pònjat una pinjàda de acqua in su fogu, nci ghèttat una farrancàda de cìxiri e dhi ponit su crabettòri e candu intendit ca s’acqua est buddéndi nd’ artziat su covéccu e…fàtzat de aìci e bandit cun Deus”! “ Deus bòlat e dhi téngat cumpanjìa, su pàra”! Iat torràu issa.

Insàras, cumenti su para iat nàu, issa iat fattu: iat pòstu sa pinjàda ‘e s’acqua in su fògu, nc’ iat ghettàu su cìxiri e dha iat accoveccàda. Candu si ndi fiat accatàda  ca s’acqua fiat buddéndi, nd’ iat liàu su crabettòri e…ita no fiat su spantu? De sa pinjàda ndi fiat sartàu unu tàllu de cixirèddus, ki teniant pùba de pippìu e tzerriànta tottus impari: “ Mamma, ‘òllu pani, mamma, ‘òllu pani”! “Santa Bràbara mia meraculòsa”! Si fiat fata cussa pobura femmina e de su disispéru, accanciàu iat sa scovua e in prèssi, in prèssi nci iat fuliau  a foras  tottus cussus cixirèddus famìus e serrau nc’ iat s’enna. Setzia in su scànnu, cun is manus in cou, pentzàt a su ki dhi fiat sutzédiu e in terra dhi parrìat de biri anòra cussu tallu de cixirèddus tzérria, tzérria…

A su mericèddu, a su pobìddu, torràu de su sàttu, no dh’ iat nau su fattu, ma candu fiant a mesa posta, cenéndi, dh’iat contau tottu. Cuss’homini dha castiàda  e ndi tenìat làstima, ma dha stimàda meda, meda e dha bolìat ajudài, peròu no iscìat accuménti.

Tottu in dh’una, iant intendiu u’ stragàtzu, in su furrungòni de sa scovua, cumenti e ki dho-y  essat u’ topixèddu. Invecis ndi fiat bessìu unu pippìu. pikerredèddu ke unu cìxiri e itzerriàt: “Mamma tengu frìus, babbu ‘ollu pani”! E ita no fiat su spantu de-y cussus dus, ki no cumprendìant su ki fiat sutzedéndi. Su pippìu si fiat accostàu accànta de sa femmina e issa dhu iat pigau in cou e dhu castiàt cun is ogus lambrigòsus. Issu inveci, appillonàu ke u’ cuccuméu, pentzàt ki essat una martzìna. Candu peròu  si fiant asseguraus ca fiat berus , dhu iant pesau cumenti e ki essat u’ pippìu insoru e dhi iant postu de nomini Cixirèddu.

Balla ca jei cresciat su pippìu, pappendi civràxu, pistoccu e casu de craba druci e saporìu. No est ki essat fattu mannu meda, meda, a nai sa beridàdi, ma fiat unu pippìu ballenti e arrespettosu. Su babbu suu, po dhu stentai, dh’iat fattu unu sulìttu de canna  e cussu iat cumentzàu  a dhu sonai cun passiòni e ballentìa. Tott’a is très, bivìant cun préxu e cun gòsu.

Onnya santa dì Cixirèddu andàda assu sattu a portai sa cos’’e pappài a su babbu e sonàt, sonàt su sulìttu sen’’e ibàsiu; de-y cussu stuggixéddu de canna  ndi bessìant  nodas stravanàdas, e is nais de is mattas s’incrubànta a trivas, e is froris accabbànt’e s’abérri e is bestieddas de su podénti s’incarànta  de su cràkkri, e is calaxèrtas ndi ‘ogànta sa conkixèdda de is istampus de is murighìnas de perda, tottus ammaynàus ascurtendi cussu sonu bellu de spantu! Po no frimai cussa musica divina o fortzis po sa bregùnja, po fintzas is cixarèddas lassànta de cantai! Su cuccumèu becciu, cun is ogus mannus, mannus spallancàus, sighìat po trettu longu sa puba de cussu pippiéddu, goséndi de cussu sonu nodìu! Cixiréddu teniat arrespettu e coidàu po tottu cussas criaturas.

Su babbu suu jei dh’arrepittiat fìsciu de no trigài, poita ca iat intendiu ca de u’ paghéddu de tempus in cussus trèttus dho-y attressilàt s’Orcu.

E propiu in una dì de mala sorti, dhu iat attobiàu s’Orcu: in su mentris ki fiat torrendi a domu de portai sa cos’’e pappai a su babbu, in su merì e si fiat stentàu tempus e tempus, setziu  in una arròcca, sonendi su ballu sardu cun su sulìttu e in gìriu, in gìriu conillus e leppiris, perdixis, pigas e meurras, printzis e kerris, crucculèus e tzikkirriadòris, intzòncas e strìas, storis e tzuaddìnas, po fintzas dus sirbonis fiant baddéndi cun préxu y allirghìa; is màttas, a nais tendias, faìant su tundu e puru is calaxèrtas sighéndi su sonu movìanta su cugùddu!

S’Orcu, un homini de puba manna, manna, leggiu ke su ‘épidu e piùdu ke unu cràbu, dhu iat abbràncau narendidhi: “ Imou deu ti nci pàppu, poita ca po abarrài frotzùdu, fattu, fattu mi deppu pappài u’ pippìu e mi dispraxit meda, meda, ma esti toccàu a tì”!

“Lassamìdha sonai –dhi iat nau su pippìu – su sulìttu po s’urtima borta”!

S’Rocu dh’ iat arrespost ca jei dhu podìat fai, ma de no trigài meda.

Cixirèddu iat incumentzàu a sonai una musikèdda de aici bella ki nci fiat arrenésciu a indruciài pro fintzas su coru de perda dess’Rocu, ki tottu ammaynàu iat pregontàu a su pippìu cumenti essat fattu a sonai su sulìttu beni de aici! “ Tzertu ca – iat torràu Cixiréddu – cun is manus grussas e piudas ki portas tui, no nci iast arrenèxi mai”! “ E de accumenti fatzu a teni is manus ke is tuas”? Iat nau s’Orcu. “ Pìga sa segùri – dhi iat torràu Cixiréddu insaras – abérri su trùncu de cussa matta manna de ìxili de ingunis e stikìnci is manus me in sa spaccadùra, ca is didus jei infinìgant”!

De aici iat fattu s’Orcu: iat abértu su truncu de s’ìxili cun dh’u’ cròpu forti de segùri, nci iat imbuccàu is manus me in sa spaccadùra, narèndi a su pippìu de ndi bogài sa seguri po si torrài a serrài.

E fiat abarràu ingunis incasciàu, cussu mammallòni tontu, e si ndi fiat accatàu, troppu tradu peròu, ca cussu pippiéddu dhu iat coglionàu: “ Scabullimindi de inoi – dhi naràt s’Orcu – jei t’impromittu ca ti ndi lassu andài”! “Ki tui nci arrenescis imoi, abbrancamidha puru, babbasòni pudésciu, dha bis custa segùri, castiàdha beni, ca deu imoi ti fatzu in centu e un arrògu, po ti nci pappài is marjànis”!

Inveci su pippiu, de appùstis ki iat cumpudàu sa bértula de s’Orcu e iat appubàu ca fiat préna de pallàncas de oru, ndi iat liàu una fétti e dha iat torràda a serrài e andendisindi de pressi, ca fiat jài tradu e sa mamma sua iat a essi jài scrétia, dh’ iat nau: “ A ita mi serbit a ti fai arrògus, candu no bàllis nùdda, mannu po debadas e tontu ke sa medr’’e pùdda. Adiosu, domanda pedronu a Deus y a sa genti puru po tottu is malafattas cosa tua”!

In pressi, in pressi Cixiréddu si nci fiat torràu a domu e iat contàu su fattu a sa mamma e pois iat arrepìtiu su fattu a su babbu puru, candu fiat torràu de su sattu. Issu castiendidhu pentzàda ca cussu pippièddu, maccai no essat mannu meda de puba, scìat manixài beni su cerbéddu, e fiat meda cuntentu.

Cixirèddu, su babbu suu e sa mamma sua bivìant prexàus e cunténtus!

S’Orcu fiat abarràu ingunis tempus e tempus, itzerriéndi agitòriu, finas a candu dus massaius de ingunis accànta, intendendi is itzerrius stremenàus de cussa pobura bestia ki fiat, nd’ iant tentu làstima e ndi dhu iat scabùliu de sa matta. S’Orcu fiat tottu allacaynàu e de sa debilèsa no abarràt prus in pèi. Iat torràu gratzias e iat impromìttiu de insandus  de fai a bonu e de domandai pedrònu a tottu cussus ki iant téntu mali de parti sua. Tottu su dinai puru iat torràu e iat detzìdiu de andài a bivi in sa ‘ìdda, in mesu ‘e sa genti. Finas a sa fini de sa vida sua iat circàu su pedrònu de sa genti, sen’’e nci arrenèsci. Ma candu si fiat ammaladiàu po si morri, sa genti, maccài a pat’’e cou, ndi iat tentu làstima! E issu fiat mortu sulenu!

$1-          Po essi arrìccu nci bollit pagu tempus;

$1-          po essi bònu, nci bollit tempusu meda!

$1-          Is cosas passàdas si podint iscarèsci,

$1-          ma no si podint mudài!

Peppi

La favola di Cixirèddu (Cecino).

Tra le favole che ci raccontava nonna Garàu, raccolte nei paesi del Medio Campidano, dove lei si recava a vendere sacchi di orbace e sciallini, ora mi ricordo questa:

C’era una volta, in uno dei paesini del Campidano, una donna, che, pur sposata da tanto tempo, non aveva figli. Dio non gliene aveva dato e lei, poverina, sentendo che s’avvicinava l’età in cui non avrebbe più potuto averne, quando andava in chiesa, pregava Gesù di concederle la grazia.

Il parroco, che ascoltava sempre le sue anime, la consolava e la esortava ad avere fiducia in Dio e a tenere pazienza.

Lei, nella sua tristezza, pensava anche al marito, poiché notava quanto fosse affettuoso con i nipotini: ma lui era un uomo e tentava di nascondere quel suo sentimento!

Un bel giorno bussò alla porta un fraticello di fra’ Ignazio, per l’elemosina e le chiese anche un bicchiere d’acqua. Nel mentre lei raccontò delle sue cose e del desiderio fortissimo di avere un bambino tutto suo. Il frate, poiché voleva aiutarla, le suggerì come avrebbe potuto fare: “ Mi ascolti, buona donna, quando io sarò andato via, metta una pentola d’acqua al fuoco, versi dentro una manciata di ceci e ponga il coperchio, che subito deve togliere appena si accorge che l’acqua sta bollendo…faccia così e vada con Dio”! “Sia fatta la Sua volontà e che vi accompagni, frate”! Rispose la donna.

Uscito il frate, fece come lui le aveva suggerito: mise la pentola d’acqua al fuoco, versò la manciata di ceci e la coprì. Appena si accorse che l’acqua era in ebollizione tolse il coperchio e…quale sortilegio! Dalla pentola saltarono numerosissimi ceci dalle sembianze di bimbi e urlanti tutti insieme: “Mamma ho fame, mamma voglio pane”! “Santa Barbara mia dei miracoli”! Esclamò la povera donna, esterrefatta e, presa la scopa, in fretta e furia, spazzò fuori quella folla di ceci affamati e chiuse la porta.

Seduta in una seggiola, con le mani in grembo, rifletteva  su quanto le era capitato e le sembrava ancora di vedere per terra quella moltitudine di ceci urlanti!

Sul tardi, al marito rientrato dalla campagna, non raccontò subito l’accaduto, ma durante la cena gli espose il fatto. L’uomo, osservandola ne ebbe compassione, ma provava per lei tanto amore e voleva aiutarla, pur non sapendo come!

Ad un tratto sentirono un tramestio, nell’angolo della scopa, come se ci fosse un topolino; invece ne uscì un bimbo piccolissimo, quanto un cece, che gridava: “ Mamma ho freddo, babbo, ho fame”! Quale meraviglia per quei due, che non capivano quanto stesse succedendo”? Il bimbo si avvicinò alla donna, che lo prese in grembo, osservandolo poi con gli occhi in lacrime. Il marito invece rimase con gli occhi sbarrati come un gufo, credendo che si trattasse di un sortilegio.

Quando capirono che tutto era vero, lo allevarono come un figlio e gli misero  il nome di Cixiréddu (Cecino).

Per certo il bambino, mangiando pane e biscotti fatti in casa e formaggio di capra, cresceva, cresceva, non tanto a dir la verità, ma venne su un bambino intelligente e rispettoso.

Il genitore gli costruì un flauto di canna, affinché non s’annoiasse e lui cominciò a suonarlo con passione e maestria. I tre vivevano felici e contenti.

Ogni santo giorno Cixiréddu si recava in campagna, a portare il pasto al padre e suonava, suonava il flauto senza sosta: da quel tubicino di canna uscivano note meravigliose, e i rami degli alberi s’inchinavano a gara, e i fiori finivano d’aprirsi, e gli animaletti del bosco s’affacciavano dai folti cespugli, e le lucertole facevano capolino dai buchi dei muretti di pietra, tutti ammaliati da quel suono dolce ed incantevole; per non interrompere quella musica, o forse per pudore, persino le cicale smettevano di cantare. Il vecchio gufo, con gli occhi enormi, sbarrati, seguiva per lungo tratto le figura del bambino, beandosi di quel suono d’incanto!

Cixiréddu teneva grande rispetto e attenzione per tutte quelle creature.

Il genitore gli andava spesso dicendo di non tardare, poiché aveva sentito che da un po’ di tempo l’Orco gironzolava nei paraggi.

E proprio in un giorno di sfortuna l’Orco lo sorprese. Infatti, mentre rientrava a casa, un pomeriggio, si era attardato per lungo tempo: seduto su un grosso sasso, a suonare il ballo sardo col piffero; e tutto intorno conigli e lepri, pernici, ghiandaie e merli, pettirossi e capinere, passeri e strillozzi, civette e barbagianni, falchi e poiana, e persino due cinghiali danzavano contenti in allegra brigata; gli alberi coi rami facevano la rotonda ed anche le lucertole dondolavano il capo seguendo la musica.

L’Orco, un omaccione brutto come il debito e peloso come un ariete, lo afferrò urlando: “Ora ti mangio, perché per rimanere forte ogni tanto devo mangiare un bambino e mi dispiace, ma oggi è toccato a te”! “Lasciami suonare un poco, per l’ultima volta”! Chiese il bambino. L’Orco glielo concesse, purché si sbrigasse.

Cixiréddu cominciò a suonare una musica così melodiosa, che riuscì ad addolcire finanche il cuore di pietra dell’Orco, che, completamente rapito, chiese al bambino come facesse a suonare così bene il piffero. “Per certo, con le tue mani, grosse e pelose, non riusciresti mai”! “ E come debbo fare per averle come le tue”? Soggiunse l’Orco. “Prendi ora la scure – suggerì Cixiréddu – spacca il tronco di quel grosso leccio lì vicino ed infilaci le mani; vedrai che le dita si assottiglieranno”! E così fece l’Orco: aprì il tronco di leccio con un colpo di scure e ci infilò le mani, chiedendo al bambino togliere l’ascia perché si richiudesse. E rimase lì incastrato, quello stupido imbecille: si accorse troppo tardi che quel bambino s’era fatto beffe di lui. “Toglimi da qui – gli chiedeva – io ti prometto di lasciarti andare libero”!  “Se tu riesci, prendimi pure, cretino puzzolente, la vedi questa scure, guardala bene, perché io adesso ti riduco in mille pezzi e ti lascio in pasto alle volpi”!

Invece il bambino, dopo avere rovistato nella bisaccia dell’Orco ed avere notato che era piena di monete d’oro, ne tolse una per ricordo e la richiuse e prendendo la strada del ritorno, al pensiero che la mamma fosse già in apprensione, poiché era ormai tardi, aggiunse: “A che serve farti a pezzi, quando non vali nulla, grande e grosso per niente e tonto come la cacca di gallina; addio, chiedi perdono a Dio ed a tutta la gente per le tue malefatte”!

In fretta, il bambino tornò a casa e raccontò alla madre l’accaduto e  ripeté l’avvenimento al padre, al suo ritorno dalla campagna. L’uomo osservando bene il suo bambino pensava che, se pure non era grande di statura, senz’altro sapeva fare buon uso del cervello, e provò soddisfazione!

Cixiréddu, il padre e la madre vivevano felici e contenti.

E l’Orco?...Rimase lì per lungo tempo, implorando aiuto, sino a quando due contadini dei campi vicini, avendo udito i lamenti di quella povera bestia che era, ne ebbero compassione e lo liberarono dall’albero. L’Orco era sfinito tanto da non rimanere in piedi. Ringraziò i suoi soccorritori e promise che dal quel momento avrebbe cambiato vita e che avrebbe chiesto perdono a tutti quelli che avevano ricevuto torto da parte sua.

Restituì il maltolto e decise di andare a vivere in mezzo alla gente, della quale cercò il perdono, sino alla fine dei suoi giorni, senza peraltro riuscirvi. Ma quando si ammalò per morire, gli abitanti di quel paesino ebbero pietà di lui. Morì in serenità!

            -Per divenire ricchi possono bastare pochi attimi,

            -per diventare buoni, ci vuole molto tempo!

-Le cose del passato possono andare in oblio,

-ma non si possono cambiare!

Peppe