ZZDICIUS/T

Valutazione attuale:  / 0
ScarsoOttimo 
Dettagli
Pubblicato Martedì, 21 Marzo 2017 07:12
Scritto da Giuseppe
Visite: 1720

DICIUS/T  

Tali babbu tali fillu: tale babbo, tale figlio = (latino)talis pater, talis filius. la somiglianza fisica tra padre e figlio è cosa congenita, ma spesso c’è anche somiglianza morale ( è un fatto educativo). Questo proverbio è universale ed è usato nel bene e nel male. Per i sardi ce n’è un altro simile, non uguale ( vedi più avanti),  truncu ‘e figu, astua’ ‘e figu.

 Teni setti fidas cumenti ‘e su pisittu: avere sette vite come il gatto. Questo detto si usa per le persone che riescono a scampare diverse volte alla morte per il rotto della cuffia, come si suole dire. È un proverbio comune.

 Timit s'umbra sua e tottu: ha paura della sua stessa ombra. Vi sono molte persone in cui è forte il senso della paura, senza ragione. Talvolta però chi evidenzia eccessiva paura, vuole evitare qualcosa per cui non prova gradimento. (latino) umbram suam timere o umbras timere.

 

Tirat sa perda e cuat sa manu: lancia il sasso e nasconde la mano. Il detto viene usato per indicare il comportamento di certe persone che non solo causano male agli altri, ma dopo aver lanciato il “sasso” si nascondono vilmente in modo da creare sospetti e odi.

 Tontu che  sa merda de pudda: tonto come la caca di gallina. La gallina è proverbiale per la sua stupidità, ne consegue…

 Tontu che lollòi: tonto come un babbeo. Lollòi ( qui a Gonnos diciamo anche lallòi); dal toscano lollo; dal greco antico λαλόσ (lalòs); greco moderno λωλόσ (lolòs). È una espressione usatissima, con la quale apostrofiamo una persona, adulto o bambino, quando si comporta da citrullo. Si ricorda che lollòi significa anche fiore.

 Topi imbitzau a casu finit in su latzu: il topo abituato al formaggio finisce nella trappola. Le abitudini poco sane è meglio abbandonarle, prima che portino a situazioni da cui è poi assai difficile uscire.

 Tzappulu mali postu si torrat a così(ri): una toppa mal messa va di nuovo cucita. Quando si pone riparo a situazioni imbarazzanti, è assolutamente necessario che il rimedio sia solido e duraturo.

 Torrai croccoriga: rispondere “picche”. Significa dare risposta negativa. Espressione che si usava anche quando un giovanotto o il suo pronubo (su paralimpu), andava a chiedere la mano della ragazza al suo genitore. Quando la “domanda” non aveva esito positivo il giovanotto o il suo mediatore riportava la cattiva notizia: “M’hanti torrau croccoriga”! “ Mi hanno risposto picche”!

 Torrai cun dh-u’ ciliru e’ binu e u’ frascu de pistoccu: tornare con un settaccio di vino e un fiasco di biscotti. È un controsenso. Solitamente segna la parte finale di una storiella terminata in maniera diversa da come si auspicava, tuttavia senza gravi danni.

Torrai cun sa cou fatta a nù: tornare con la coda annodata (fra le gambe). Il proverbio mette in evidenza lo stato di sconforto del bambino (o dell’adulto), che rientra dal fallimento totale di un tentativo, su cui contava tanto.

 

Torrai de lettu a stoia: tornare da letto a stuoia. Il proverbio si adatta alle persone che da uno stato di relativo benessere precipitano nell’indigenza più dolorosa.

 

Torrai su mortu a biu: riportare il morto in vita. Quando un cibo o una bevanda sono eccellenti, si dice: “ Torrat su mortu a biu”! Cioè: “ E’ miracolosa/o”! Si dice anche di una ottima notizia, quando questa rimette a posto una situazione sull’orlo del disastro.

 

Tostau che sa balla: duro come la palla…di fucile, chiaramente. Si dice anche: Tostau che pedra murra: duro come il granito. Ci sono tanti altri modi per indicare una persona “testa dura”.

 

 Tottu a sa brenti y a Deus niente ( tottu a sa budda y a Deus nudda): tutto alla pancia e niente a Dio. È il rimprovero classico del parroco (su vicariu) rivolto ai parrocchiani, che

trascurano la pratica religiosa e dedicano invece tanto alle cose materiali della vita.

 

Tottu pagat Pantalloni: tutto paga Pantalone. È sempre il solito a pagare. Questa espressione la usa il padre di famiglia quando c’è la spesa da pagare. Pure chi fa un lavoro dipendente e non può fare a meno di pagare le tasse, perché gliele scontano direttamente dalla busta paga, usa questa espressione. Si adatta bene anche al presidente del Consiglio dei Ministri, al presidente di una Giunta Regionale o Provinciale ed infine al Sindaco di un paese, quando le cose non vanno bene e c’è uno che deve pagare. In proposito ho scritto una piccola commedia in rima, di un solo atto, in lingua sarda chiaramente, intitolata appunto: “Tottu pagat Pantalloni”. Vedi nel sito: A-RIME del Campidano-e. 

 Tottu pagat Sisinni: tutto paga Sisinnio. Come il precedente. Questo detto si usa soprattutto a Villacidro, dove il nome Sisinnio è molto diffuso.

 : le guance come le natiche del vicario. Quando si incontra un bambino con le guance belle e rosse, si usa questa espressione, ad indicare anche il tenore di vita del vicario ( per le vivande chiaramente), che riceve in regalo dai parrocchiani il “meglio” delle loro colture e dei loro allevamenti.

 Tres cosas funti trevessas in su mundu: sa brebei, su molenti e sa femmina: tre esseri sono di natura controversa nel mondo: la pecora, l’asino e la donna. È chiaramente un detto inventato dagli uomini. Per quanto attiene la pecora e l’asino non ci sono dubbi, per quanto riguarda la donna, rimane da riflettere.

 : triste come l’annata cattiva. Il proverbio indica la situazione di grande sconforto in cui si viene a trovare una persona colpita da grave disgrazia. I proverbi che seguono hanno lo stesso significato: tristusa notti sen’’e steddus: triste come una notte senza stelle; tristu che Santu Lazzaru: triste come San Lazzaro. tristu che Santu sen’’e festa: triste come un Santo senza festeggiamenti.

 

 Tristu e miserinu s’arriccu, su poburu jei s’arrangiat: che Dio assista il ricco, il povero già si arrangia (vedi dicius lettera D). L’espressione è ancora molto usata in tutte le parti della Sardegna. Noi abbiamo sempre avuto l’impressione che sia stata inventata dai ricchi, per difendere il proprio benessere ed impedire, appunto ai poveri, di attentare ad esso. “In tempo di guerra – mi dice sempre mia madre – nelle case dei ricchi il pane non era mai mancato, mentre mancava spesso nelle case dei poveri”! Il proverbio comunque indica il grado di sopportazione del povero alla miseria, a cui è abituato da sempre, mentre il ricco nell’indigenza muore: Dio salvi i ricchi dalla miseria! Nella memoria rimane fermo un ricordo che mette in evidenza uno dei modi in cui il povero poteva  “arrangiarsi”... Un tempo per i braccianti agricoli del Medio Campidano, della Marmilla e della Trexenta, per citare le zone intorno a noi ad economia agricola, il 15 agosto, giorno di Santa Maria, era una data tanto attesa, perché i padroni delle terre saldavano loro il conto dell’anno lavorativo  – a pagai a Santa Maria! Ma era inoltre giorno di tristezza e di speranza insieme; primo, perché scadeva il contratto lavorativo; secondo, per il fatto che si aveva le speranza di essere ripresi al lavoro per l’anno successivo, che iniziava il 10 settembre. Purtroppo per loro, i 25 giorni di intervallo tra il 15 agosto ed il 10 settembre, erano di riposo forzato e spesso di digiuno. “I poveri già si arrangiano”! – “ Su poburu jei s’arràngiada”!dicevano i ricchi ed aggiungevano: “ Tristu e miserinu s’arriccu”! Ed il povero doveva arrangiarsi davvero e cambiare mestiere per non morire di fame. Da bracciante agricolo diventava fabbricante di utensili da cucina e da lavoro. Le mani rugose  e nodose abituate a lavorare la terra si “intenerivano”  si “ingentilivano” nel modellare l’erica, il leccio, il castagno e nell’intrecciare canne, giunchi e steli di grano. E da quelle ingegnose ed abili dita uscivano splendidi utensili, vere e proprie opere d’arte.

 II materiale occorrente era già tutto pronto, raccolto a tempo giusto e conservato in luogo asciutto e riparato: le canne, i giunchi, i lunghi, esili e duttili, ma resistentissimi rametti di olivastro, gli steli del grano, scelti meticolosamente della stessa lunghezza e spessore per le ceste e i cestini, l’erica, il leccio o il rovere, il corbezzolo, l’olivastro per mestoli e cucchiai di legno, il castagno per i taglieri e le pale da forno. Dalle competenti mani di quelli artisti estemporanei uscivano utensili meravigliosi  e di importanza capitale per le case dei ricchi e dei poveri: cesti, cestini, cestelli, canestri e canestrini e setacci di tutte le dimensioni; pale da forno, mestoli, cucchiai e taglieri talvolta bellissimi per gli intagli geometrici o figurativi. Terminato il lavoro iniziava la vendita. I centri minerari di Arbus, Guspini, Gonnosfanadiga, Villacidro, San Gavino, Iglesias, Carbonia ed altri, erano i posti migliori per piazzare i manufatti, poiché in questi paesi c’erano i soldi e i  minatori non subivano la scadenza del contratto ed il pericolo che questo non venisse rinnovato ed avevano inoltre le ferie pagate: “subivano” invece la devastante polvere di silicio nei loro polmoni, il lavoro, duro e massacrante, nelle cave o ancor peggio a centinaia di metri sotto terra. I lavoratori della terra invidiavano la sicurezza del lavoro ed il benessere economico degli operai delle miniere, più che a spaccarsi la testa con la falce e la zappa, sotto il sole cocente o il gelido maestrale; i minatori sognavano la vita ed il lavoro all’aria aperta ed al sole, più che avere i polmoni squarciati dalla micidiale polvere del silicio, ma, a dir la verità, né gli uni, né gli altri avrebbero rinunciato alla propria, comunque penosa, situazione. Ricordo il canto o meglio la nenia dei venditori di “su strexu de fenu”. Di buon mattino, nei giorni di fine agosto e di inizio settembre, con la fresca brezza che preannuncia l’arrivo dell’autunno, le strade del paese si colmavano della nenia melodiosa dei venditori di strex’’e fenu: “Comporai cilìrus, pobìnas, cròbis, scatteddus e  canistèddasaaa!…Dhu comporat su cilìru sa mèri”? Alle donne che si affacciavano agli usci delle case. “ E tùrras e talléris e pàlas de forru e cullèrasaaa!...Dhu compòrat su talléri, sa mèri”? Sembra che siano passati secoli da questi fatti ed invece sono trascorsi solo pochi decenni: la tecnologia avanzata li ha inghiottiti nel suo veloce ed inarrestabile processo. Nelle sagre e nelle feste di Sardegna è però facile trovare ancora, esposto nelle bancarelle, su strex’’e fenu, ma il canto dei venditori de su pranu, nelle strade dei centri, un tempo minerari,  non si sente più. “ Non  preoccupatevi, questa mia ultima osservazione, non viene da nostalgia di quei tempi, si tratta solo di un puro e semplice ricordo del passato. Oggi non ci sono più i venditori di strex’’e fenu, ed anche se il Campidano soffre di tanti mali, tra cui il peggiore è la disoccupazione giovanile, la povertà e la miseria ( non solo economica) di quei tempi se n’è andata e non tornerà più.

 Tronus surdus akua a imbudus: tuoni profondi acqua a catinelle. I tuoni profondi settembrini (Is tronus ‘e Capudanni) annunciano le prime grandi piogge autunnali.

Truncu ‘e figu astua ‘e figu: tronco di fico, trucioli di fico. Questo proverbio si usa quando si riconosce in un figlio la parte negativa delle note caratteriali del genitore. Si dice anche: “ De trassas est su babbu lintu e pintu = dal comportamento è identico al padre.