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ALAMANACCO-marzo

Marzo, Martzu, Mratzu; Primavera, Beranu o Veranu.

Nosi liberi su Sennori de Mratzu bentòsu e de pippiu arrenegòsu! Ci liberi il Signore da Marzo ventoso e da bambino capriccioso!

Il nome del mese deriva dal dio romano della guerra, Marte. Nei dialetti etruschi troviamo inoltre Mamers e Mamertini erano appunto i soldati di Marte. Sino al 450 a. C. era il primo mese dell’anno; segnava infatti l’inizio della Primavera, il rinnovo della natura, il ritorno di Proserpina alla madre Cerere. ( Inserire la leggenda di Persefone) - Marte è anche il dio della vegetazione primaverile. In suo onore i popoli italici sacrificavano un porco, una pecora ed un toro (suoventaurilia), e celebravano le feste  primaverili della purificazione della campagna (ambarvalia). Marte però, in prevalenza è il dio della guerra ed infatti, all’arrivo del bel tempo, si dava inizio alle esercitazioni militari, in preparazione alle spedizioni, che terminavano generalmente ad ottobre, anch’esso dedicato a Marte Vittorioso( le feste della vittoria).

8 Marzo: la festa della Donna.

“Io voglio del ver la mia donna laudare// ed assembrarle la rosa e lo giglio//come la stella Diana splende e pare// e ciò che la su è bello a lei somiglio//…  - ” “Ella si va sentendosi laudare, // benignamente d’umiltà vestita e par che sia una stella venuta// dal cielo in terra a miracol mostrare//…”  -   “Donne che avete intelletto d’amore//…”   -  “ Chie è questa che ven, ch’ogn’om la mira, // che fa tremare di claritate l’are// e mena secco Amor, si che parlare //null’omo pote, ma ciascun sospira?//…”  Guido Guinizzelli, Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, hanno visto nella donna (in poesia s’intende), non l’oggetto del piacere, non la “sguattera della casa, non l’angelo del focolare, ma  la guida spirituale ed intellettuale per l’intera umanità. A distanza di oltre 7 secoli, la donna combatte ancora per raggiungere il ruolo riconosciutole dai tre grandi poeti del passato. E ciò non può essere del tutto addebitato al “maschilismo” dell’uomo, almeno la dove gli Stati si reggono su Costituzioni veramente Democratiche, dotate di sistemi elettivi a suffragio universale, ma più che altro al fatto che le donne non hanno ancora preso coscienza di se stesse. Basti osservare la situazione italiana, nella quale le donne potrebbero prendere il sopravvento rispetto agli uomini, per il fatto che le elettrici sono più numerose degli elettori. E perché invece le donne, nei posti elettivi come Parlamento, Consigli Regionali, Consigli Provinciali, Comuni etc. votano i maschi? Evidentemente il cosiddetto maschilismo affligge più le donne che gli uomini!

21 Marzo: Primavera; Beranu o Veranu.

Marzo libera il sol di prigionia: arriva la bella stagione, tanto cantata dai poeti: “Temp’era del principio del mattino// e il sol montava in su con quelle stelle// ch’eran con lui quando l’Amor Divino// mosse di prima quelle cose belle// sì ch’a bene sperar m’era cagione// di quella fiera a la getta pelle// l’ora del tempo e la dolce stagione (Dante, Div. Comm. Inferno C. 1° - vv. 37/43). “D’in su la vetta della torre antica, // passero solitario alla campagna// cantando vai finchè non more il giorno; // ed erra l’armonia per questa valle, // Primavera d’intorno// brilla nell’aria e per li campi esulta//…(Leopardi – il Passero Solitario, vv. 1/6).

Beranu:

A pagu a pagu s’ierru si mòrrit,

sa matta ‘e sa mèndula s’infròrit,

Zefiru tebidu nci bògat su frìus,

torrant a curri in sa ‘ia is pippìus.

Puliu e sentzèru su xelu in Berànu,

allirgat su coru de bonu manjànu;

su sattu rinobat erbas e fròris,

in pranu, in artura, cun milla colòris.

S’airi si prenit, parrit ispàntu

De luxi indoràda, de musica e càntu;

disigiu de amori, da paxi in sa mènti:

“Accabbai sa gherra, accabbai su pràntu,

Beranu est arribàu tottu luxènti,

A torrai sperantz’a su coru e sa gènti”!

Peppi

Traduzione (letterale) in italiano.

Primavera:

Muore l’inverno lentamente,

e già il mandorlo è fiorito,

Zefiro tiepido scaccia il freddo,

le strade si riempiono di bimbi.

Nitido e sereno il cielo a Primavera,

rallegra il cuore di buon mattino;

la natura si rinnova di erbe e di fiori,

in piano, in collina, con mille colori.

L’aria si riempie, che meraviglia!

Di luce dorata, di musica e canto!

Voglia d’amore e pace nella mente:

“Finite la guerra, cessate il pianto

Primavera è arrivata tutta lucente

A ridare speranza al cuor della gente”!

Peppe

La Primavera è il simbolo della giovinezza: “ Quanta è bella giovinezza,// che si fugge tuttavia;// chi vuol esser lieto sia,//del doman non c’è certezza”…Così Lorenzo il Magnifico intonava il canto in onore del carro allegorico di Bacco e Ariana, inneggiando alla giovinezza ed al lieto vivere, che erano e sono le componenti principali del Carnevale.

Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza etc. etc. era il canto dei giovani fascisti. Mio nonno Concas aveva sostituito alcuni vocaboli più consoni alle condizioni della Sardegna del tempo: “ giovinezza, giovinezza seu scrutzu e si bì sa petza, // sen’’e pani, sen’’e dinai, // sen’’e binu po cenai// giovinezza vida ‘e cani…” (giovinezza, giovinezza, sono scalzo e si vede la “carne”; senza pane, senza denari, senza vino per la cena// giovinezza vita da cani!//…)

Nelle tradizioni popolari della Sardegna, e non solo, il matrimonio (sa còya) un tempo assumeva particolari sfumature. Dal fidanzamento ufficiale(s’accabbamèntu de còya), al matrimonio, trascorreva un bel po’ di tempo. Si ricorda che, nella tradizione di Guspini( Sardegna; Provincia del Medio Campidano), dal fidanzamento alle nozze non poteva trascorrere più di un anno. Per il resto talvolta trascorrevano diversi anni, o per lo meno, il tempo necessario al giovane per terminare la casa, quasi sicuramente già iniziata, ed alla futura sposa per terminare il corredo ed il mobilio. Ma non sempre era possibile per lo sposo avere pronta la casa, anche perché succedeva spesso che la fidanzata si ritrovasse  in stato interessante e quindi bisognava accelerare i tempi e celebrare le nozze al più presto. L’errore, “in itinere”, cioè durante il fidanzamento, era comunemente detto “sbaglio di grammatica”. Ma ancor più fantastica era la scusa, che la fidanzatina forniva alla mamma, del proprio stato: “Lerat mammai, esti cosa de sa lingua mala de sa genti. E si puru esti, esti obera de su spiridu santu”! (Guarda, mamma, è frutto della mala lingua della gente. E se pure è, è opera dello spirito santo!) [ Se così fosse veramente, avremmo un mondo molto più buono, perché ci sarebbero intorno a noi tantissimi Gesù!].  Allorquando la data del matrimonio veniva accelerata, si trovava una casa in affitto (a pesòni), in attesa del completamento della casa propria. Giunto il giorno delle nozze, il padre dello sposo provvedeva a mandare il carro a buoi a casa della sposa per il ritiro del corredo etc. (sa ròba). Per l’occasione i buoi venivano adornati con le collane di velluto ricamate e nastri di vivaci colori e campanelle (is gutturàdas), Talvolta i suonatori di “launeddas” rallegravano il corteo. I giovani e le ragazze cantavano stornelli (muttettus e battorinas) in onore degli sposi. Non mancava lo sfrzo dei costumi tradizionali. In mezzo alla “roba”, ne carro c’era anche il fuso, la conocchia, ed il telaio (su fusu, sa cannùga e su trebaxu), per tessere e filare( po tèssi(ri) e fibài). I mozzi delle rute del carro non venivano ingrassati appositamente, in modo che scricchiolassero (su tzikkìrriu de is arròdas de su càrru). Era comune credenza che lo scricchiolio allontanasse gli spiriti maligni e portasse grandi vantaggi all’amore. Il futuro sposo precedeva il carro, con a braccetto la propria madre o la sorella maggiore. Si sostava davanti alla casa della sposa, che solitamente era pronta, all’uscio, con a braccetto il proprio padre od il fratello maggiore o il padrino di battesimo; dietro la sposa un altro corteo. I due cortei si avviavano in chiesa separatamente e, dopo la cerimonia, si univano insieme. All’uscita di chiesa le madri, rispettivamente del giovane e della ragazza, offrivano ai novelli sposi la “grazia” o benedizione, con piatti ricolmi di grano, sale, caramelle, cioccolatini, e qualche soldino, come augurio di benessere e di abbondanza: i piatti vuoti poi venivano regolarmente rotti. Era cosa non rara che prima dell’ingresso degli sposini nella nuova casa, lo sposo venisse accerchiato dagli amici e “malmenato” di santa ragione, per rammentargli che non doveva mai mancare di riguardo per la propria moglie ed anche per ricordargli che la vita matrimoniale non è fatta solo di tenerezze, ma soprattutto di sacrifici e di duro lavoro. Scherzo comune era poi quello di appendere sotto il letto nuziale, per la prima notte, campanelle e barattoli di latta, in modo che questi facessero un bel po’ di baccano, nei momenti di più “intima tenerezza”!

Il racconto del mese:

19 marzo: San Giuseppe padre di Gesù

Un tempo la caccia, o meglio, la stagione venatoria, era aperta sino al 19 marzo ed oggi non più. Per una questione in cui è coinvolto San Giuseppe. Egli infatti, per una vecchia storia, frutto più che altro di male lingue, ma priva di fondamenti, s’appostava con la “sua doppietta”, sino appunto al 19 marzo, periodo di “ripasso”, per tentare di abbattere un certo “piccione”, che già aveva avuto occasione di osservare, ma mai a tiro di schioppo; era senz’altro un meraviglioso esemplare: il più bello, il più lucente, il più maestoso di tutti i colombi.

La “storia” che vi racconto risale a non molti anni fa e Giuseppe, proprio il 19 marzo, appostato dietro una siepe di lentischi, in salto di “Spadula”, in agro di Gonnosfanadiga, quasi al confine col territorio di Pabillonis, aveva avvistato il bellissimo uccello e, da “buon sardo”, imbracciò con calma il fucile: non aveva poi tanta fretta; l’attesa durata secoli e secoli gli infondeva un senso di calma e di riflessione: era arrivato finalmente il momento tanto aspettato! Lo osservò con estrema attenzione: era veramente bello, elegante, maestoso, dai lineamenti perfetti e lucente più del sole! Puntò, ma nell’attimo prima di premere il grilletto fu preso dagli scrupoli. Nella sua mente si aggrovigliarono una immensità di cose, alle quali non riusciva a dare plausibile risposta: “ E se non fossero vere tutte le dicerie e le insinuazioni…e se fosse tutta una montatura della gente maligna! Come poteva essere un uccello così bello, autore di una simile ingiustizia ?” “ Ma quanto era grande l’invidia della gente  -  pensò”! E tanto bastò all’arrivo di Maria, che supplicò Giuseppe di non farlo, di non dar credito alle male lingue: “Sappi, sposo mio, che quel uccello è tuo padre ed è anche tuo figlio ed è appunto per vedere te che passa qui in questo giorno”! Giuseppe non afferrò a pieno il significato delle parole di Maria, ma si convinse, anzi fu certo della sincerità della moglie, e da quel giorno smise di appostarsi lì per il ripasso dei colombi. Non chiedendo più lui che la stagione venatoria si tenesse aperta sino al 19 marzo, fu deciso dalle Amministrazioni e dai Comitati Faunistici, di chiuderla prima!

Dall’Australia con tanto amore e nostalgia per la propria terra: Lino Concas [ Lino Concas, nella poesia tra Sardegna e Australia è considerato uno dei maggiori esponenti della Letteratura Italiana dell’Oceania. Nasce a Gonnosfanadiga nel 1930, di padre minatore etc. etc. vedi nel Web: multiculturalismo nazionale nella poesia di Lino Concas].

Noi i Kanakas

Fossa calda di silenzio

figura di uomini

occhi neri e polmoni bucati.

Noi i Kanakas

quelli che tu non vedi,

cui pensi tra colline

di sole e venti di canne.

Camminare con chi?

Se anch’io non ci sono

come l’acqua  di un fiume

e la corrente di uno scoglio.

Siamo e non siamo

senza mai trovarci,

foglie si steppe e di resina,

di salici e prati in sedili vuoti

con gente che non conversa

spezzati di parole

e mangiati di ombra.

Ritornerò un giorno

nella mia casa,

riaccenderò il cammino

 che il vento ha spento,

ritroverò tovaglie e bicchieri

e il mio vecchio pane

in una stanza accesa di sole.

Sentirò la mia voce

e le mie parole,

rivedrò la faccia delle montagne

 e qualcosa che non è morto

anche sotto la povertà della terra,

la neve e il sole,

i covoni rossi di grano,

il mattino che nasce

e la gente che passa.

Lino Concas

Traduzione (libera; in lingua sarda del Campidano) di Giuseppe Concas.

Nosu is Kanakas

Bualòdru ‘e silentziu

pantàsimas ‘e hòminis,

ogus nièddus, prumonis stampaus.

Nosu is Kanakas

cussus ki tui no bis,

dhus pentzas me is cùccurus

de sobi e cannas ‘e bèntu.

Andài, cun kìni?

Maccài deu no dho-y sia

Ke s’acqua ‘e s’arriu

E sa currènt’’e u’ scògliu.

Seus e no seus

Sen’’e s’adobiài,

follas ‘e struvìna e de tzrìva,

de tzràppas e prànus

in cadìras buìdas

cun genti ki no fuèddat,

accacigàus ‘e fuèddus

e ingùrtius ‘e umbra.

Happ’a torrài ua dì

a domu mia,

allùi su fogu

ki su ‘entu hat istudàu,

happ’agattai tiàlas e tàssas

e su pani miu tostàu

in u’apposèntu scraràu ‘e sobi.

Happ’a intendi sa ‘òxi mia

E is fuèddus mius,

happ’a torrai a bìri sa car’’e is montis

e calincuna cosa ki no est mòrta

asutt’’e sa poborèsa dessa terra,

sa nì e su sobi,

is mannugas indoràdas ‘e lòri

s’orbesci assu kitzi

e sa genti ki passat.

Peppi Concas

   

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