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DICIUS:

DETTI, PROVERBI, MASSIME, SENTENZE, AFORISMI, MODI DI DIRE DEL CAMPIDANO

 

Prefazione

 

“Candu no tenis nudd’ ‘e fai – mi naràt sa bonam’ ‘e babbu – scraffi su cù a is gattus”! Un passatempo come un altro, più semplice di un cruciverba, ma più pericoloso, perché i gatti non sempre volentieri accettano certe carezze. Io invece, nei ritagli di tempo, mi son messo a fare un gioco, meno pericoloso del graffiare il deretano ad un felino domestico, ma senz’altro più complicato di un semplice cruciverba: scrivere dei sardi, della loro storia, della loro lingua, della loro cultura. Poi le soddisfazioni che restano, sono, senza dubbio, più appaganti dell’una e dell’altra cosa. Il rischio però è sempre quello di annoiare chi legge queste pagine, ma non posso fare a meno di correrlo, perché altrimenti dovrei tenere tutto per me e chiudere il discorso. Mi rincuora il pensare che tanta gente, del Campidano e della Sardegna in genere, vorrebbe conoscere il significato di certe espressioni tipiche della lingua sarda: detti , proverbi, sentenze, massime, battute proprie di un popolo che ha pensato tanto, ha detto tanto, ma ha scritto pochissimo. Nella  storia, nella cultura, nella lingua di un popolo, detti , proverbi, massime e sentenze costituiscono un tesoro di incalcolabile valore. Nei detti, nei proverbi sono custoditi gli usi e costumi e le indicazioni che segnano il tracciato indicato dagli anziani per le giovani generazioni e suggerimenti per evitare i mali, i vizi ed anche il dolore, di qualsiasi genere essi siano: molti di essi tentano, almeno teoricamente, di alleviare la quotidiana sofferenza della povera gente. Il proverbio richiama inoltre all’ordine costituito uomo – natura e uomo – Dio. La maggior parte dei proverbi sono adattabili al passato, al presente ed anche al futuro. Essi hanno come sostanza l’esperienza umana, che è la grande maestra di vita; sono nati con l’uomo e ne hanno improntato la tradizione e le manifestazioni scritte, dai geroglifici egiziani, alla Bibbia, alle antiche scritture indiane,  alle grandi letterature classiche del greco e del latino. Il più grande filosofo dell’antichità, Aristotele, li chiamò αξιώματα (axiòmata), cioè “principi” della filosofia. Altri li hanno chiamati “parabolae”, cioè comparazioni, similitudini, allegorie,metafore. Si chiama proverbio perché si adopera appunto in altro senso rispetto a quello propriamente letterale.

 

Scorrendo i libri di coloro che mi hanno preceduto, pochi a dir la verità, sull’argomento che qui mi accingo a trattare, mi  ritrovo pienamente a mio agio. È come un “excursus memoriae”, cioè una rivisitazione della memoria, per il fatto che si tratta di cose che io ho già sentito, ma sulle quali non mi ero mai soffermato, per lo meno ad un’analisi approfondita. La lingua sarda è stata la mia prima lingua e pertanto incancellabile dalle mie meningi e nonostante sia un professore di lingua e letteratura italiana,  con amici e parenti ho sempre parlato in sardo, senza vergogna, semmai il contrario. Mai però mi ero impegnato, come in questi ultimi quindici anni, a ricercare le cose della mia prima lingua, che reputavo poco interessante e di scarso rilievo per le mie esigenze culturali. In verità, ancora a tutt’oggi, si fa una gran fatica ad entrare nel vivo della lingua sarda per la presenza di tantissime isole linguistiche, la cui proliferazione si è manifestata successivamente al periodo giudicale, in contrapposizione alle imposizioni spagnole, piemontesi, italiane, fasciste e della stessa Repubblica Italiana, nonostante le norme costituzionali etc.

 

“Pocos, locos y male unidos”! Così ci presentava un nobile spagnolo al suo re. Dobbiamo dire oggi male unidos linguisticamente. Eppure la Sardegna centro meridionale parla e scrive la stessa lingua: da Cagliari ad Oristano la lingua sarda è compatta, pur con piccole differenze fonetiche, come ad esempio il betacismo,  presenti nella lingua parlata, non sempre in quella scritta.

 

È dunque il Campidanese la migliore lingua dei sardi? Senz’altro è la più unita!

 

Io gonnese del Medio Campidano mi trovo proprio al centro di tre possibili varianti delCampidanese: il Cagliaritano, l’Oristanese e l’Iglesiente; e vi posso garantire che le differenze sono relativamente poche, quindi tentare l’unificazione è cosa non semplice, ma realizzabile.

 

Di ciascun detto, proverbio o sentenza, a seguito della traduzione più o meno letterale in italiano, ne ho voluto dare le possibili interpretazioni reali e simboliche, giovandomi sempre e comunque del ricco patrimonio ereditato, di indagini storico - linguistiche e culturali in genere, portate avanti con scrupolosa attenzione  sui numerosi documenti scritti pervenutimi in mano ed inoltre del confronto diretto con molti anziani dei paesi del Campidano.

 

Per facilitare la ricerca al lettore comune (a cui in verità è dedicata l’opera) o all’esperto, che voglia mettere alla prova la bontà dell’opera e trovare spunto per eventuali confronti, ho scelto l’ordine alfabetico, che, nonostante possa sembrare pedante è pur sempre quello più sistematico e più spedito.

 

 ***

 

DICIUS/A

A barca perdia: a barca perduta. Dicesi di chi ha perduto le speranze: la situazione in cui si viene a trovare il  naufrago che ha perduto la barca ed è in balia delle onde. Si dice anche di chi è carico di debiti e non sa come pagare i creditori, o di chi si trova davanti ad un problema di difficilissima soluzione, senza possibilità di venirne a capo.

A bendi s’anima a su tiau(lu): vendere l’anima la diavolo. Si dice di persona senza scrupoli, irrispettoso di qualsiasi regola civile e religiosa.

A bolli coi prima de impastai: voler cuocere prima di impastare. È proprio di chi pretende l’impossibile e non lascia alle cose il tempo necessario.

A cabori de brenti de monja: il ventre delle suore è pallido, si crede almeno. L’espressione indica il colore bianco. Da ragazzi usavamo spesso questa espressione per definire il caffè che di buon mattino, prima che andassimo a scuola, ci preparava nostra madre: era piuttosto pallido, chissà perché!

A candu troppu a candu nudda: o troppo o niente. Ai momenti di “grande” abbondanza si alternano momenti di “forte” carestia; qui in Sardegna, ai primi di settembre dopo un’estate secca e torrida, si aspettano le piogge: o non piove per niente o piove tanto da far danni.

A cantai is gocius o gogius: il canto in onore di. Si dice per lo più dei santi o per scherzo di una persona su cui si vuole fare dell’ironia.

A cantai is oremus – is allelluias.Cantare l’oremus. Mandare maledizioni. Is oremus sono le preghiere del prete per il morto, ma qui s’intendono le maledizioni che uno manda ad altri in un momento d’ira. “ La ca ti cantu is oremus”! “Ti mando all’altro mondo”!

A cent’annus ‘e vida: augurio a cento anni di vita.

A chini bollit pappai a dus bucconis (a 4 ganascias), dhi scuartàrant is barras. Chi troppo vuole nulla stringe. È la favola del cane e del pezzo di carne riflesso nell’acqua del torrente.  Sono molti quelli che pretendono più di quanto possono avere e nel tentativo di avere tutto perdono anche quello che hanno.

A chini dònat y a chini impromìttit: è proprio di chi non sta mai fermo e pertanto crea guai a tutti quelli che gli stanno vicino; o anche di chi è in lite con tutti quelli che gli stanno attorno.

A chini fait e sciusciat no dhi mancat mai cos’’e fai: chi fa e disfa ha sempre da fare. È la tela di Penelope. Ci sono quelli che sono sempre all’opera, ma non combinano mai niente.

A chini lillu y a chini frori: chi giglio e chi fiore. Tra giglio e fiore ci sono ben poche differenze. Quest’espressione si usa per indicare due persone, che stanno insieme (es. marito e moglie) e che si equivalgono per le marachelle che combinano.

A chini portat s’ogu mannu no dhi bastat ni birdi ni siccau: è riferito a coloro che vorrebbero più di quanto possono avere; coloro che non si accontentano mai ed il cui occhio vorrebbe abbracciare più di quanto gli è concesso.

A chini pudat y a chini scratzat: per chi non perde tempo; detto anche di persone che s’intrufolano facilmente negli affari degli altri e che non danno tregua; noiosi.

A chini sbagliat sa coya passat s’inferru in terra: chi sbaglia il matrimonio vive una vita d’inferno( prima non era possibile il divorzio, che non sempre, comunque, produce l’effetto desiderato).

A chini scebèrat meda nci arrùit a sa medra: dicesi di chi è indeciso in una scelta importante, ma soprattutto di chi aspetta tanto nella scelta del coniuge.

A chini spudat a celu, sa serca a facci dhi torrat: chi sputa il cielo sputa se stesso. In senso strettamente religioso il detto raccomanda il rispetto ed il timor di Dio. In senso comune invita la persona ad un comportamento equilibrato, in cui c’è ben poco spazio per gli atti inconsulti.

A chini tenit conca no dhi mancat barritta: a chi ha testa non gli manca berretta. Il proverbio si adatta alle persone che conducono la propria esistenza in modo assennato, senza lasciare molto spazio all’incertezza: con la testa ben riparata!

A chini timit , cosa depit: chi ha paura deve qualcosa. Chi ha paura di qualcosa o qualcuno non ha la coscienza a posto. Chi ha fatto un torto si deve aspettare la ritorsione.

A chini timit s’akua no bandit a mari: chi ha paura dell’acqua non vada al mare. Con la paura non si risolve niente. Quando si ha paura di affrontare una certa situazione è meglio lasciar perdere.

A chini troppu y a chini nudda: ( a candu troppu etc.) la sorte è ambigua: c’è chi ha troppo e chi niente.

A contus malus si do-y torrat: quando i conti “non tornano” bisogna rifarli. “I conti sono conti e devono tornare”! dice Antonino Mameli. Chi fa conti falsi si deve aspettare proteste o ritorsioni. I conti falsi non quadrano mai.

A cosas fattas no serbit pentimentu: a cose fatte non serve pentirsi. Il proverbio stimola a riflettere seriamente prima di commettere irrimediabili danni.

A coyai s’abarrat pagu y a prangi tottu sa vida: il matrimonio è un vincolo inscindibile e seriamente impegnativo. È un avvertimento per chi fa una scelta valida per tutta la vita, anche fuori dal matrimonio.

A cropu a cropu si ndi segat sa matta: con la pazienza si raggiunge qualsiasi traguardo; la fretta è cattiva consigliera. chi va piano va sano e va lontano.

A cuaddu becciu funi noba: è un controsenso, è come ferrare una capra. È come pretendere che un vecchio cavallo galoppi come un puledro. È detto anche delle persone anziane che pretendono di fare cose di gioventù.

A cuaddu bonu no di mancat sa sedda: del cavallo buono il padrone se ne serve. Il servo fidato trova sempre lavoro. Il buon operaio è lodato dal padrone.

A cuaddu donau no sceberis su piu: cavallo donato non guardargli il pelo (non guardarlo in bocca); quando ti danno un regalo, prendilo così com’è.

A cumandai est in cabàda, a ponni menti in pesàda: il comandare è in discesa, l’obbedire in salita. Questo detto va bene per tutti, grandi e piccoli, maschi e femmine.

A Deus y a su rei no si cumandat: a Dio ed al re non si comanda. Nella vita vi sono cose che non si possono fare. Viene assolutamente sconsigliato lo spirito anarchico, sia nella vita religiosa che in quella politica.

A Deus y a su rei no si narat ca no! a Dio ed al re non si può dire di no! E’ detto anche di chi fa il prepotente e non ha rispetto di niente e nessuno, né dei comandamenti di Dio, né delle leggi degli uomini.

A dhi sonai is campaneddas in origas: a suonargli le campanelle nelle orecchie. Il proverbio si riferisce a tre situazioni diverse: 1) a quando si hanno rimorsi di coscienza per azioni ingiustamente od inconsultamente compiute; 2) in riferimento ad una promessa ripetuta e non mantenuta; 3) infine alla situazione in cui uno si trova a dire male di un altro, che però sta lontano da lui.

A dhu conosci in sa santa groria. Al posto della parola “condoglianze”, qui da noi si usa spesso questa espressione, che tradotta significa: “ Che possa incontrarlo di nuovo in paradiso”!

A dhu conosci in su celu: stessa espressione di “a dhu conosci in sa santa groria.

A dì a dì toccat su casu: un giorno a me, un giorno a te. Più che altro è un avvertimento, che consiglia di non approfittare delle situazioni, cioè un invito alla moderazione.

A donnyunu s’arti sua: a ciascuno il proprio mestiere ed il proprio ruolo; è inutile che uno voglia fare l’avvocato quando è ciabattino.

A fai mali no torrat mai a contu: far male non conviene mai. I malfattori, prima o poi, devono rendere conto delle loro malvagità.

A fai origas de butteghèri: fare orecchie da mercante: nel senso che tutti conoscono. Si dice anche: fare l’indiano o fare lo gnorri.

A fini ‘e carràra; a fini ‘e cupponi: alla fine della botte il vino è melmoso e acido. La fine di un periodo di prosperità: Spacciàu su pricciolu spacciàda sa festa = finito il vinello finita la festa.

A fortza de scorrovonai ndi bessint is topis a pilu: rovistando nelle vecchie case escono i topi. Si dice soprattutto di chi vuole rivangare le storie passate, poiché spesso tornano a galla le vecchie magagne.

A fortza de ti castiai portu su tzugu trotu: a forza di guardarti ho il torcicollo. Per dire che mi hai fatto perdere la pazienza con le tue chiacchiere.

A fueddus malus origas surdas: a parole poco ortodosse, orecchie sorde. Spesso le persone tranquille, non per viltà, ma per spirito di pace, agli insulti degli attaccabrighe preferiscono fare orecchie da mercante, cioè non rispondere o far finta di non avere sentito.

A groffus de istadi, de ierru, de meigama = nel mezzo dell’estate, dell’inverno, del caldo estivo pomeridiano. Trovarsi nel mezzo di un fastidio, di un impiccio.

A homini becciu funi noba: è un controsenso. È come indossare il frac a calzoncini corti e a stivali di gomma. È detto anche di un vecchio che sposa una ragazza. A ciascuno il suo. “A cuaddu becciu…”

 A is murus beccius no mancat topis: nei vecchi muri non mancano i topi. Nelle case abitate da tanto tempo c’è sempre qualche triste ricordo.

A lìa a conca o a scaparròni: sono due modi simili, per trasportare un sacco (solitamente pieno a metà) o un fascio di legna da ardere, con la testa e la forza del collo. A lìa a conca si lega il sacco ad una estremità, con un legaccio (lìa deriva da liga, (spagnolo liga) = legaccio), così che si crea una specie di cappuccio, che si infila in testa, ed il carico poggia sulla schiena, ma la parte più sottoposta allo sforzo è il collo. A scaparroni, dal genovese scaparron = scampolo, sta ad indicare lo scampolo o fazzoletto o altro pezzo di stoffa o anche un sacco, che viene più volte piegato e messo sulla parte centrale della testa, da temporale a temporale, su cui poggia il cappio che si ricava dalla fune mediana che cinge il fascio di legna. Lo “scaparrone” attutisce quindi la pressione sulla testa del cappio che sorregge il fascio, che per il resto poggia sulla schiena.

A lìa e pòni: cambiare continuamente. È l’espressione di rimprovero della madre alla figlia adolescente che non sa quale vestito mettersi per uscire( un tempo la scelta era alquanto ristretta). Oggi si usa per indicare una persona che cambia continuamente, un po’ in tutte le cose.

A lingua tira, tira: ansimando, col fiatone. Si dice di chi si trova in situazione di precarietà, soprattutto economica.

A luxi ‘e candèba s’orbacci parrit tela: con poca  luce  l’orbace sembra tela. Come a dire: “Chiudi gli occhi, non badare troppo ai particolari”. Oppure: “ Non essere troppo schizzinoso, accontentati di quello che hai o che ti danno”. “ Un pezzo di pane e lardo a casa mia è migliore del pezzo di carne di porco selvatico in casa d’altri”! Lo diceva anche Ariosto.

A medas annus: è un augurio di prosperità. A medas annus cun saludi. Ti auguro tanti anni di prosperità e buona salute. Così anche: atrus annus cun saludi.

A mesu brenti, ma in su callenti. Con la pancia piena a metà, ma al caldo in casa mia. Meglio un tozzo di pane a casa mia, che la carne di cinghiale in casa d’altri (L. Ariosto – satire – vedi il precedente: “ a luxi ‘e candeba…”). Chi si accontenta del proprio è un signore.

A morri y a proi no serbit a pregai: per morire e per piovere è inutile pregare.  ( io aggiungo, senza offesa: “ Nemmeno a fermare la lava dell’Etna”. Si dice anche di chi si trova in una situazione in cui  non può far niente, deve soltanto accettare quel che gli viene(es. l’eruzione di un vulcano, un terremoto, un alluvione, una qualsiasi calamità naturale: tuttalpiù ci si può organizzare per evitare danni irreparabili, almeno sino a quando l’uomo non riuscirà a dominare tali eventi).

A nai faulas po scì(ri) beridadis: raccontare frottole per sapere la verità. Quando nella nostra tracotante e morbosa curiosità vogliamo conoscere le verità su un fatto, da una persona, che invece non la vuol rivelare assolutamente, aggiriamo l’ostacolo raccontando un sacco di frottole, per spingere l’interlocutore reticente a dimostrarci che i fatti sono andati diversamente, facendolo cascare nelle nostre reti.

A nci bogai is de corti po arriccì is de monti: mandar via i vicini per ricevere i lontani. L’essere troppo ospitali non sempre è di vantaggio. Per educazione cristiana siamo tenuti ad ospitare gli immigrati, ma non possiamo per loro trascurare i nostri vicini bisognosi.

A orza de crobu no morrit burriccu: per desiderio del corvo non muore l’asino. Nella vita non possiamo pretendere tutto secondo le nostre voglie; ancora meno se la realizzazione dei nostri desideri si ricava sul male di altri.

A pagai a Santa Maria. A pagare a Santa Maria. Il 15 agosto segnava la chiusura dell’anno agricolo e quindi il saldo che i padroni delle terre davano ai braccianti. Ma l’espressione è usata diversamente. Infatti quando uno reclama un debito, gli si risponde: “A pagai a Santa Maria”! E’ come dire alle Calende greche, cioè mai!

A pagai y a morri nc’est sempri tempus: per pagare e per morire c’è sempre tempo. Quando un debitore è assillato dal creditore risponde così.

A pampàdas : carponi(dei bambini). È il detto che si adatta  alle famiglie di poveri, che si trovano in situazione di particolare disagio.

A pedronai si podit, a iscaresci no!: perdonare si può, dimenticare no! Il proverbio non ha bisogno di spiegazioni.

A pei scrutzu; a pei miggia; a pei incareddu: scalzo, con le sole calze, con un piede zoppo. Sono “detti”, il cui significato è facile da indovinare, riferiti a situazioni umane, per lo più di carattere economico.

A pentzai e a nai s’abarrat pagu, a fai nci bollit meda: a pensare e a dire si rimane poco, a fare ci vuole molto. È il detto che meglio si adatta agli uomini politici ed alle loro promesse da marinaio.

A poburu no depast, a santu no promittast: paga il debito al povero, non promettere inutilmente al santo. Sono due avvertimenti a cui nella vita bisogna immancabilmente adeguarsi.

A pompa manna y a prexu: in grande festa. Quando tutto va bene. Questa espressione è usata anche in senso ironico per ricordare al povero, che per un certo periodo di momentaneo benessere economico si è lasciato andare, senza pensare al ritorno alla normale povertà. Si dice anche, da parte degli abitanti della provincia, dei cagliaritani, che fanno grande festa il giorno dello stipendio ( a pompa manna y a prexu), e poi, per il resto del mese, vivono di stenti – càscanta famini.

A sa beccesa camisas arrandàdas:  alla vecchiaia camicie col pizzo; un controsenso. È inutile nascondere gli acciacchi. È proprio anche di chi si trova in situazioni economiche buone quando non ne ha più bisogno. Si dice dello stipendio o salario: “Quando sei giovane  hai  bisogno di più soldi ed invece te ne danno meno”! Deus donat cixiri a chi no portat dentis. Dio da i ceci a chi non porta denti.

A sa mammai camisas arrandàdas, a su babbai proceddeddus cottus, a sa pipia bellas nadiàdas: è uno scioglilingua: alla mamma camicie col pizzo, al padre maialetti arrosto, alla bimba sonore sculacciate. Come a dire: “ A ciascuno il suo”!

A sa moda de Gavoi: moi po moi: alla moda di Gavoi moggio per moggio. Quando uno semina un moggio di grano e raccoglie appena il tanto seminato, ha lavorato inutilmente. Si usa il proverbio per evidenziare le situazioni in cui si trovano tanti poveri, contadini e non, i quali fanno tanti sacrifici per un misero “raccolto”.

A santu setzidì in domu: a santo siediti a casa. Per i nostri nonni e le loro famiglie l’unico modo di uscire dal paese, anche per divertirsi, era di andare alle feste degli altri paesi: feste religiose e popolari sempre comunque in onore dei santi; Santu Sisinni di Villacidro, Santu Luxori di Arbus,  Santa Fida de Serrenti o de Biddesorris, Santa Mariacquas di Sardara,  Santa Maria de Guspini, Sant’Antoni de Santadi, Santu Irorxu di Guspini, Nosta Sennora de Bonaria di Marceddì, Santa Arega di Decimo, Santu Nigoba di Arcidano, Santu Sidoru di Pabillonis, etc.  etc. Erano i figli che solitamente chiedevano ai genitori di andare alla festa: “E crasi babbu a cali festa andaus”? “ A santu setzidì in domu”! Era spesso la risposta del genitore.

A si dha ghettai de pala in coddu: dalla spalla all’omero. È la situazione in cui si trovano due persone invischiate in un affare poco serio e chi li ha scoperti vuole sapere chi è il promotore della faccenda e così i due per discolparsi si accusano a vicenda. Capita spesso tra bambini e ragazzi, ma anche tra adulti.

A si dhu torrai Deus: che Dio possa rendervelo! Espressione di chi riceve un bene e ringrazia di cuore, ben sapendo di non poterlo rendere.

A si dhu torrai in domu nosta: a buon rendere. Chi dava qualcosa in casa sua, riceveva questa risposta.

A si fai sa gruxi a manu ‘e manca: farsi il segno della croce con la mano sinistra. Il proverbio sta ad indicare il gesto di una persona che ha appena scampato un grave pericolo; ma non si capisce il perché del segno della croce con la sinistra, semmai il contrario! Oppure si tratta del gesto, chiaramente di raro uso, di uno che per scampare ad eventuali pericoli invoca, tanto insensatamente, quanto inopportunamente, il contrario di Dio!

A si pesai in chintas: alzarsi in cinte. È proprio della persona oltremodo orgogliosa, che reclama eccessivamente anche quando non è nella giusta ragione.

A soddu, a soddu si fait s’iscudu: soldo dopo soldo si arriva al gruzzolo. S’iscudu era l’equivalente di cinque lire, mentre il soldo era un decimo di lira. Il detto si addice al buon risparmiatore. Gli abitanti del borgo di Gonnosfanadiga credono di essere ottimi e saggi risparmiatori. Gli abitanti dei paesi del Medio Campidano ricordano invece i gonnesi per la loro, proverbiale, taccagneria.

A straccu barattu: vendere a prezzo stracciato. Solitamente quando un prodotto è abbondante viene venduto “ a straccu barattu”. Per la carne, trattandosi però di animale morto accidentalmente, si usava l’espressione “ a bassa macelleria “, chiaramente italiana.

A stutzicai is espis(is abis): stuzzicare le vespe(le api). Quando si incontra una persona ostile o particolarmente litigiosa con cui si è gia avuto a che fare, è preferibile non fermarsi e tirare avanti a passo celere.

A su cuaddu su sproni a sa femmina s’arrejoni. Il cavallo puoi domarlo ed ammansirlo con la frusta e lo sprone, la donna puoi “ammansirla” solo con le buone maniere.

A su ma(l)u no d’agatas mexina: per il malvagio non c’è medicina. Noi sardi, per (quasi) comune convinzione, crediamo ben poco nel ravvedimento dei malvagi.

A su molenti tzaffarànu: all’asino zafferano. È come dare olive al gatto;  mangiare cavoli a merenda. L’espressione sta ad indicare una situazione penosa, che ha urgente bisogno di essere risolta e chi interviene non risolve per niente il problema, anzi!

A su para donàdhi sa limusina in s’enna: al frate dai l’offerta sull’uscio della porta. Ci sono due diversi modi di interpretare questo detto: 1) per fare più in fretta e dare l’opportunità al frate di visitare più case e quindi di ricevere più offerte per il convento; 2) si dice che si tratti di un proverbio scaturito dalla diffidenza dei mariti per le proprie mogli, le quali non dovevano assolutamente ricevere in casa i fraticelli questuanti, sempre pronti ad offrire in cambio dell’offerta una buona parola di cristiana consolazione o quant’altro. Quest’ultima  è, forse, una malignità! 

 A su pei de su poburu andat beni onnya crapitta: al piede del povero va bene qualsiasi scarpa. Colui che si trova in situazioni economiche estremamente precarie è facile preda di chiunque ne voglia approfittare.

A su spegu currint is crobus: alla carogna corrono i corvi. Quando una pecora sta per morire i corvi già le stanno intorno, pronti a divorare i resti. Il detto si adatta, ma non sempre, a situazioni umane, in cui sta per lasciare questa valle di lacrime un ricco possidente ed i parenti tutti gli stanno, finalmente, intorno.

A su stogumu est druci su chi est marigosu a sa bucca: per lo stomaco è dolce ciò che è amaro per la bocca. Formidabile proverbio, che si adatta alle persone che accettano, anche se recalcitranti(a mala orza = mal volentieri), i consigli severi, i quali però hanno un esito del tutto positivo.

A su toccu de s’Ave Maria, d-onniyu’ torrit a domu sua: al suono dell’Ave Maria ciascuno torni a casa sua. L’espressione si usava anche per ricordare ai mariti vagabondi, che si trattengono al bar o altrove, che all’imbrunire si deve rientrare a casa.

A timì, cosa deppis! Se hai paura devi qualcosa. La paura è un sentimento spesso dovuto a qualcosa che abbiamo fatto e che non avremmo dovuto fare.

A toccu taba: senza sosta. L’espressione è solitamente usata per indicare un’azione insistente, propria, ad esempio, di uno scocciatore, uno di quelli che non ti mollano, del tipo della 4^ satira del poeta latino Orazio – Ibam forte Via Sacra, sicut meus est mos…-

A torrai s’anima a Deus: il rientro dell’anima a Dio. E il rientro che tutti i cristiani si aspettano…il più tardi possibile, umanamente parlando!

A trivas: a gara. Fare a trivas significa fare a gara. Si usa questa espressione anche per indicare il comportamento di certe persone ( asuriòsus, asurìus, esurìdus = avidi, ingordi) che hanno sempre fretta, come se fossero sempre in gara col mondo intero.

Abarrai cun dh’u’ pramu ‘e nasu: rimanere con un palmo di naso. È la situazione in cui viene a trovarsi uno, che si aspetta tanto, ma non ottiene niente: una “fregatura”! La sostanza del proverbio si “consolida” mettendo il pollice di una mano aperta sulla punta del naso e facendo velocemente dondolare le dita: con ambedue le mani se si vuole dare più concretezza al gesto, se si tratta, ovviamente, di una colossale fregatura.

Abarrai trogamidha – troga: tentennare. Per diversi motivi possiamo trovarci in un momento di grave incertezza, in cui ci viene assai difficile orientarci e pertanto, non sapendo “che pesci prendere”, stentiamo a prendere una decisione.

Abarrit cun Deus: quando due dopo aver chiacchierato si salutano per separarsi. Si dice anche come frase di buon augurio. È proprio dei cristiani. La risposta è: Deus bolat!

Abi chi pungit nci perdit sa matza: tanto, tanto tempo fa Dio domandò all’ape quale fosse il suo desiderio: “Puntu e mortu”! Chiese l’ape. Cioè chi è da me punto muoia subito. “Puntu e morta tui”! Rispose il Creatore. Infatti l’ape che punge lascia conficcato il pungiglione insieme ad una parte dell’intestino ed è condannata a morire. Il detto è per colui che nella boria di far male agli altri, non s’accorge che sta causando la propria rovina.

Abrìbi torrat su lèppiri a cuìbi: (aprile riporta la lepre al covìle, al giaciglio). In riferimento al “rigurgito” invernale, in piena primavera, che io, spudoratamente, ho chiamato l’inverno di San Martino ( San Martino papa – 13 aprile).

Accabonu o accaboni mannu (siat)! – oh! Se fosse veramente così! In latino utinam. Si dice anche: “Lingua tua, santa”! quando uno augura un bene. La parola  si costruisce così: a cabu bonu mannu siat; cabu = capo, fine, esito = che abbia un buon esito.

Accappiai is canis a sartitzu = legare i cani con le salsicce, cioè tentare di risolvere i problemi senza impegno, con leggerezza e con ignoranza.

Acciappàdhu a sa cou o acciappai s’anguidda a sa cou: dicesi di un creditore che tenta di recuperare i suoi soldi da un debitore che ha già preso il “largo”; o di un cacciatore che dopo aver sparato la lepre, senza colpirla, la insegue nello stupido tentativo di prenderla con le mani.

Acciungi akua a mari: aggiungere un cosa che è già in abbondanza. Si dice anche di uno che interviene inutilmente o ripetendo quanto è già stato detto e ripetuto in un dibattito = ribadire inutilmente.

Acciungi linna a su fogu: aggiungere zizzania in una lite. Aizzare due o più che già litigano. Acciungi: dal latino ad - iungo..

Accuntentadì de su chi ti ‘onat Deus: accontentati di quel che Dio ti dà. “ Sia fatta la volontà di Dio “! Risponde il timorato. Ma intanto è dovere di ogni buon cristiano ribellarsi alla cattiva sorte e tentare in ogni modo di uscire fuori da uno stato di sofferenza, qualunque ne sia la causa.

Adiosu barracca! Più che altro si tratta di un’esclamazione. Si dice quando tutto è finito in male( nessun riferimento allo storico e triste tentativo dei fratelli Baracca) Esempio: quando il temporale distrugge una coltura (la vigna) ed anche la capanna; o di una situazione penosa, dalla quale non si ha più speranza di uscire.

Affumentau siast: che ti facciano un suffumigio. Un tempo, chi subiva uno spavento tale da condizionare, almeno momentaneamente, il libero agire, veniva sottoposto ad un suffumigio (beniat affumentau). La suffumigazione dello spaventato poteva avvenire in chiesa, con un sacerdote e l’incenso, o in casa versando dei fiori medicamentosi in un braciere acceso. Per uno spavento da fulmine anch’io fui suffumigato: avevo 4 anni. Mia zia Annetta versò i fiori medicamentosi nel braciere acceso e presomi alla nuca mi piegò la schiena in modo che aspirassi profondamente quel fumo micidiale. Allo spavento subentrò il terrore: stavo per morire asfissiato!

Agattai is pillonis bolaus: la situazione in cui si trova uno che va in un posto con la speranza di prendere quanto già ha adocchiato e non trova più niente. Quando uno arriva in ritardo ad un appuntamento etc.

Agattai s’ossu fintzas in sa frisciura: trovare l’osso nel fegato. E di colui che cerca sempre scuse, per qualsiasi motivo; di chi non si accontenta mai.

Agattai sa crapitta a mesura de su pei: trovare la scarpa della giusta misura del piede. Questo proverbio va riferito ai prepotenti, che incontrano, finalmente, una persona che mette fine alla loro tracotanza.

Agattai sa crapitta a sa mesura de su pei: trovar la scarpa giusta al proprio piede. È proprio di chi fa il prepotente e trova chi gli da la giusta paga. Quando uno trova pane per i suoi denti.

Aggiudadì ca Deus jei t’hat aggiudai: aiutati che Dio t’aiuta. Chi fa per se fa per tre. Con la volontà si smuovono le montagne: lo diceva anche Sant’Agostino.

Agguantàdha a is orus; a sa cou: prendila all’orlo, alla coda. Quando una cosa ti è sfuggita è inutile che tenti di prenderla. Passi per scemo più di quanto non lo sia.

Aintru de su monti fait a intrai, aintru de s’anima ‘e s’homini no! Dentro la montagna puoi entrare, ma non dentro l’anima dell’uomo. Per distogliere uno che vuol fare qualcosa d’impossibile.

Àchibi no càssat musca: l’aquila non acchiappa le mosche. Si nutre di cose ben più sostanziose. È come vedere un accanito giocatore del tavolo verde di Montecarlo, farsi una partita a briscola al bar “Centrale” per un’aranciata.

Acqua a su marraconi, binu a su meboni: acqua agli spaghetti, vino al melone. L’espressione si usa per indicare una scelta giusta, anche se sembra un controsenso. Provare per credere! Un “famoso” ubriacone di Gonnos, di nome Salvatore Meloni, andava ripetendo questo proverbio, ma letteralmente adattato alle sue esigenze: “Akua a su marraconi e binu a Tziu Meloni!”

Acqua bentu e soli, annàda de sermentu e de lori: acqua, vento e sole il vino aumenta e il grano  gode.

Acqua bessit ‘e mari e torrat a mari. Si dice anche dell’uomo: “ Dalla terra veniamo, alla terra torniamo”. Nelle situazioni della vita bisogna tenere sempre conto dell’equilibrio naturale delle cose.

Acqua calàda no tirat mobinu: l’acqua passata non fa girare il molino. Si dice di chi ha sperperato i propri soldi e spera inutilmente che tornino  indietro.

Acqua currenti, no abarrat in brenti: l’acqua di sorgente non rimane in pancia. Si dice anche di chi è genuino ed onesto, perché quello che offre è sempre buono.

Acqua e bentu, annàda ‘e sermentu:  pioggia e vento vino in aumento. Il vento combatte le muffe di vario genere, la pioggia ingrossa i grappoli.

Acqua e frius, annàda de pippius: pioggia e freddo buona annata di bimbi. Quando le giornate erano fredde e piovose, gli uomini stavano a casa più vicini alle proprie mogli e non c’erano i mezzi anticoncezionali di oggi.

Acqua e soli, annàda ‘e lori: acqua e sole il grano ne gode.

Acqua sullena allirgat s’ena: la pioggia lenta, ma costante ingrossa la falda. Quando il “soldino” arriva con certa costanza, l’economia famigliare si rinforza. Si diceva di chi godeva di uno stipendio o salario mensile, rispetto a chi invece si doveva accontentare di qualche giornata di lavoro come bracciante agricolo.

Ambrosiu est beniu, insaras nosi croccaus: è arrivato il sonno, andiamo a letto. Quando arriva l’ora occorre muoversi. È inutile resistere a qualcosa di più forte di noi.

Amigu fidau tenitidhu caru: un buon amico è un vero tesoro. Melus un amigu bonu che unu fradi malu: un buon amico è più di un fratello cattivo. S’amigu ‘eru si bit in s’ora de s’abbisonju. Il vero amico si vede nel bisogno. Chi no tenit amigus no bandit a festa: chi non ha amici non vada alle feste. Uno non può divertirsi da solo.

Andai a mari e no agattai akua: andare al mare e non trovare l’acqua; è il colmo. Si dice di colui che nella propria sorte avversa non trova acqua neppure in mare.

Andai a passiu: andare senza una meta fissa. Comportarsi disordinatamente, senza rispetto delle regole di buona creanza. Scantonare. Si dice anche del marito o della moglie che “tradisce” il proprio coniuge.

Andai a pei incareddu: andare con un solo piede. È proprio di chi si trova in situazione economica incerta, zoppicante.

Andai a pei miggia: andare con le calze, senza scarpe. Si adatta alle persone che fanno le cose silenziosamente, perché non vogliono essere scoperti. Anche questo è in senso negativo.

Andai a pei scrutzu: scalzo. Si diceva di chi non aveva scarpe, cioè di chi si trovava proprio ai limiti della sopravvivenza; a parte i pescatori di Cabras, is crabarissus, che sono ancora scalzi.

Andai a pertia trota: andar col bastone storto. È proprio di colui che nella vita non ne combina una giusta, ma tutte storte.

Andai a Roma e bi(ri) su Paba; andai a Roma e no bi(ri) su Paba: andare a Roma e vedere il Papa; andare a Roma e non vedere il Papa. Il primo ricorda il “precetto” di ogni buon cristiano. Ai poveri è concesso ( meno male) di farlo col pensiero! Quando qui da noi si dice: “Est andau a Roma e no hat biu su Paba”! Significa che uno ha affrontato una cosa importante della vita, ma non è riuscito a portarla a termine.

Andai a trottu y a u’anca: andar storto. È un ‘espressione di malaugurio, ma per lo più detta bonariamente come battuta in rima, anche da una mamma al proprio bambino o bambina, ecco un esempio: la mamma chiama la propria bambina per aiutarla. “Nina agiudamì a fai su strexu”! “Mamma, seu stanca”! “ A trottu y a u’anca, bandist”!

Andai a trotu che su cavuru: andar storto come il granchio: come sopra: non combinarne una giusta.

Andai accumbura, accumbura: andar scalciando come un asinello. Si dice dei bambini che fanno le bizze.

Andai arreu: vagabondare. Si dice dei bambini ai quali piace andare in giro, ma anche degli adulti che trascurano la casa e la famiglia.

Andai arreu che su cani de Cara: vagabondare come il cane del sig. Cara. Non sappiamo chi in realtà fosse il sig. Cara (di Gonnosfanadiga), ma gli anziani raccontano che avesse un cane particolarmente vagabondo, che sembra avesse scarso fiuto per la selvaggina, ma un fiuto straordinario per le cagne in calore. Da questo fatto o meglio da questo cane dal naso “fino” è nato il proverbio, che si adatta benissimo a quei giovanotti, sposati e non, sempre vagabondi in “cerca d’avventure “di naso”!

Andai beni y a torrai in ora mala: andar bene e tornare in malora.

Andai curri, curri: vi sono le persone che hanno sempre fretta; anche se l’indolenza non è premiata, la troppa fretta può condurre all’errore.

Andai de galera a presoni: è la situazione in cui si trova chi cerca di uscire da un impiccio e rovina in un altro uguale, identico.

Andai de mala orza: di mala voglia. Quando uno è indolente trova fatica in tutto; non fa mai niente volentieri.

Andai in ora mala: è un malaugurio. Quando ci fanno un offesa rispondiamo spesso: “Bai in ora mala(ioromaba)”! = “Vai in malora”!

Andai mori, mori: seguire il sentiero. L’uomo saggio ed onesto segue il tracciato(riferito anche a bambini e ragazzi): per tracciato s’intende quanto hanno lasciato i vecchi.

Andai nara, nara: andare borbottando. È delle persone pettegole, che ne dicono più di quanto ne sanno.

Andai pida, pida: andar petando. Si dice delle persone che ovunque si trovino, spargono chiacchiere “maleodoranti”.

Andai piscia piscia; andai caga caga: andar pisciando; andar cagando. È proprio delle persone che lasciano il proprio segno, in senso negativo, dappertutto con le proprie malignità.

Andai prangi, prangi: andar piagnucolando. È proprio delle persone che stanno sempre a lamentarsi; non sono mai contente di niente.

Andai scruculla, scrucùlla: osservare bene tutto quello che si presenta davanti agli occhi. È detto ùnel bene e nel male. Vi sono infatti quelli che lo fanno per precauzione, altri invece con intenzioni poco chiare. Qui da noi il verbo scrucullai è inteso per lo più in senso negativo. Si affianca all’espressione, andai arroncìlla, arroncìlla, che è proprio di chi cammina in lungo ed in largo osservando tutto, con l’intenzione di “arraffare” qualcosa.

Andai stròm(b)ili, stròm(b)ili: andar come un ubriaco. Si adatta anche al comportamento incerto( nelle cose della vita) di certe persone.

Andai tumba, tumba; andai tuvi tuvi; andai muru, muru: andar come un ubriaco. È proprio di uno che passa da una incertezza all’altra( nelle cose della vita).

Andas, andas: di qua e di là. Si usa l’espressione per indicare una persona o anche un animale, che sta sempre in giro: “Est(i) sempri andas, andas”! = È sempre in giro. Si aggiunge: “ No tenit furriàda”! = Non ha il senso del rientro ( a casa, per esempio).

Andat Crobu e benit Puddu: va via Crobu ed arriva Puddu. Gli abitanti del borgo di Gonnosfanadiga ricordano, più o meno simpaticamente, due esattori di tasse, particolarmente esosi ( Crobu = corvo; Puddu = pollo ruspante). Andat Crobu e benit Puddu / mai besseus de pilloni / custu de innoi / est peus de cuddu. A significare che quello arrivato dopo era peggiore del primo. Con questo proverbio, i gonnesi, in modo specifico, usano valutare, più o meno scherzosamente, l’alternarsi degli amministratori municipali.

Anima tua tres libbas: la tua anima è pesante; come prima.

Anima tua, maniga de marroni. Hai l’anima poco pulita. Si dice di chi fa un’accusa, che, dall’altra parte, non è accettata. 

Annàda de cadrilloni: annata di asfodelo. Annata buona, perché solitamente l’asfodelo cresce bene con le piogge abbondanti.

Annàda de meda binu, annàda de pagu tinu (sentidu): buona annata di vino, annata di poca saggezza (senno). Il vino abbondante gioca brutti scherzi!

Annàda de piogu: annata di pidocchi. Sta a significare l’annata brutta. Piogosu significa anche carico di debiti, in miseria, povero in canna.

Antigu che su pidu: antico quanto il peto. Inteso anche come pettegolezzo.

Appustis de oi benit crasi: dopo oggi c’è domani. Per ricordare, sempre al povero, nel momento del benessere, l’incertezza del futuro.

Appustis mortu comunigadhu: dopo morto dagli l’estrema unzione. Non serve più il prete dopo che uno è morto, se non per seppellirlo. Espressione usata per indicare quando si arriva troppo tardi in un caso di emergenza.

Appustis mortu onnya molenti est dottori: dopo morto ogni asino è medico. Per dire che la morte non distingue nessuno: un asino morto vale quanto un medico morto( anzi, dalla pelle dell’asino si può ricavare qualcosa, da quella del medico no!). Oppure l’espressione è usata per dire che dopo che un malato muore, ciò che si dice serve a ben poco.

Aradura a 8 jus, is terras funti allenas e is bois no funti is suus: aratura a 8 coppie di buoi, le terre sono d’altri e i buoi non sono suoi. Questa espressione sta ad indicare che nelle cose molto grandi c’è sempre il concorso di tante persone.

Arcuentu est fumosu, acqua teneus nosu: Arcuentu nebbioso annuncia la pioggia. È il detto dell’anziano arburese, ma ormai comune a quasi tutto il Medio Campidano. Sta a d indicare una cosa scontata per natura. Ma la risposta del figlio -“ Merda, babbu, chi Deus no bolit, Arcuentu no proit”! - sta ad indicare che niente c’è di scontato per natura, ma tutto dipende dalla volontà divina. Si dice anche per indicare una particolare situazione annunciata da segni di preavviso, la quale però può avere un esito diverso dal solito.

Arias arrubias portant bentu: il cielo rosso annuncia il vento. L’espressione viene usata per indicare i particolari che preannunciano situazioni imbarazzanti.

Arràbiu tèngiast: che tu possa avere un malanno; esclamazione di malaugurio in risposta ad un torto subito.

Arrecumandai s’anima a Deus: raccomandare l’anima a Dio. Nelle situazioni di estremo pericolo, tra le cose che restano da fare è questa.

Arrecumandai s’anima a su tiau(lu): raccomandare l’anima al diavolo. Ci sono quelli che,  nella propria malvagità, chiamano in loro aiuto persino gli spiriti del male.

Arrisu cun crojòlu: riso a denti stretti. È il sorriso “pirandelliano”, suscitato da una situazione, che in realtà lascia ben poco spazio al riso. Sorriso amaro.

Arrisu de is carrus furriaus: riso per i mali degli altri. Quando uno ride a sproposito, gli si dice: “S’arrisu de is carrus furriaus fatzast”! cioè: “Poiché tu ridi dei mali degli altri, che gli altri possano ridere dei tuoi mali”!

Arrisu malu, barras trotas: riso brutto, viso storto. Mi ricorda mia nonna: quando rideva in questo modo, per noi nipotini era meglio cambiare aria. Ma l’espressione è usata anche per indicare che non si ride dei mali degli altri.

Arriu chi currit, no pudescit: acqua di sorgente che scorre non puzza. Sta ad indicare le cose genuine, che raramente si alterano. Colui che nella vita si comporta con chiarezza ed onestà, rimane integro e pulito nella persona.

Arròga su molenti e bòcci sa carretta: fai a pezzi l’asino e ammazza la carretta: un controsenso. È proprio di chi si comporta solitamente in modo strano ed insensato.

Arròsciu che petza pudescia: disgustato come carne putrida. Si dice di chi aspetta da tanto tempo una cosa, o di chi è disgustato della vita.

Arrùmbua arrùmbua e feri feri o atzàppua atzàppua e feri feri: rotolando rovinosamente. Si dice di colui che si trova in grosse difficoltà, di qualsiasi natura esse siano.

Arrumbuendi che perd’’e frumini: rotolando come i massi del torrente. È la situazione penosa della persona umana in balia dell’avverso destino.

Arrutu a terra e scuartaràu (siast): che tu possa cadere a terra e squarciarti tutto. Espressione di malaugurio. Si da come risposta in rima.

Arrutu de celu: piovuto dal cielo. Di solito si usa questa espressione per indicare chi fa finta di non essere informato su una certa situazione:  Parris arrutu de celu! Sembri piovuto dal cielo!

Asuba de is corrus, cincui soddus: sopra le corna, cinque soldi. È l’espressione che si usa per indicare la situazione in cui si trova chi è rimasto beffato ripetutamente, senza via di scampo.

Atonju scalìu pastori famiu: autunno secco pastore affamato. Quando d’autunno le piogge non sono abbondanti i pastori stringono la cinghia.

Atzappuai su cunjali a sa pedra: sbattere la brocca alla pietra. L’unico risultato è che il recipiente di ceramica va in pezzi. Il proverbio si addice a quelle persone che pretendono di risolvere formalmente le cose senza tenere conto della sostanza

Aundi bolit su meri accappiàus su cuaddu: dove vuole il padrone noi leghiamo il cavallo. È un’espressione usata anche per indicare una persona o un gruppo di persone le quali sanno usare bene la diplomazia pur di ottenere quanto chiedono. Calza bene anche per il bambino che dice sempre sì alla madre, ma fa quel che vuole. Idem per il marito che dice alla moglie: “ Quello che dici tu mi va sempre bene, tu sei la padrona”! Intanto fa come gli pare e piace.

Aundi do-y hat fogu do-y hat genti e callenti: dove c’è fuoco, c’è gente e caldo. Sta inoltre ad indicare che per gli esseri umani la miglior cosa è stare insieme.

Aundi do-y hat fogu, do-y hat fumu: dove c’è  fuoco c’è fumo. Anche nelle situazioni della vita l’uomo deve saper mettere bene insieme i particolari di un fatto.

Aundi hat fattu ierru fait istadi: dove c’è stato l’inverno, ci sarà l’estate. Sta ad indicare il buono e cattivo tempo nei casi umani, di varia natura.

Axina cotta e muriarrù, onnya cosa a su tempu’ suu: ogni cosa a suo tempo. Il detto mostra all’uomo che nella vita, la migliore via da seguire è quella scelta con prudenza e moderazione.

   

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