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DICIUS/H

Homini coyau homini arretirau: uomo sposato uomo ritirato. Dopo il matrimonio l’uomo, solitamente, cambia le sue attrazioni, i suoi svaghi, e trascorre in casa o fuori, ma con i suoi, i momenti liberi, non più al bar o con gli amici. Le eccezioni non sono poche!

Homini de fueddu: uomo di parola. Non c’è bisogno di chiarimenti. I sardi solitamente mantengono la parola data.

Homini sentz’’e dina®i, homini mortu: uomo senza denaro, uomo morto. È così da quando negli affari umani ciò che conta di più è proprio il denaro.

Herba mala no morrit mai: erba cattiva non muore mai. Per le erbe, anche le più “pestifere” oggi ci sono i diserbanti, ma quando  “l’erba cattiva” è radicata nella mente dell’uomo, estirparla è assai difficile.

Homini sentzeru fueddat in cara: l’uomo di carattere parla apertamente. In questo senso è necessario educare i bambini ed i giovani, a casa e a scuola. Siamo stati educati, in passato, a chinare il viso davanti alla “gente importante”. Abbiamo invece educato i nostri figli a tenere sempre il viso alto. Eravamo vittime dei nostri genitori; siamo vittime dei nostri figli! Tutto sommato ci sta bene così!

 

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Ierru siccu messaiu arriccu: inverno secco massaio ricco. Quando d’autunno pioveva discretamente, all’arrivo dell’inverno il grano già rigoglioso si fermava per via del freddo secco ed a primavera poi ripartiva ben temprato dai rigori invernali ed all’inizio dell’estate dava robuste spighe belle e dorate.

Imparai su babbu a fai fillus: insegnare al padre a fare figli. È un proverbio che si adatta ai ragazzi che credono di essere “cresciuti” prima del tempo, e si sentono quindi in grado non solo di fare scelte decisive, ma di dare lezione di saggezza agli altri.

Impara s’arti e ponìdha a parti: impara l’arte e mettila da parte. Le esperienze della vita sono tutte utili e bisogna farne tesoro. L’importante è essere sempre in azione, ricordando che l’ozio è il padre dei vizi.

In domu de is-u tzrupus chini portat un ogu est unu rei: a casa dei ciechi chi vede con un solo occhio è un re. Talvolta crediamo di aver risolto un difficile problema, che altri vicino a noi non sono riusciti a risolvere. Ci accorgiamo poi che il problema non è risolto, ma solo evidenziato e che gli altri non se lo erano neppure posto. Ad esempio: adottiamo un bambino (orfano o meno; extracomunitario o meno) e crediamo di avere risolto il problema dei bambini abbandonati di tutto il mondo. Cioè vediamo con un occhio, ciò che gli altri non vedono per niente. Non sono contro le adozioni, anzi credo che sia la cosa più bella del mondo!

In su mesi ‘e abrìbi, torrat su leppiri a cuìbi: nel mese d’aprile torna la lepre al covile. Nonostante la primavera sia già inoltrata, ad aprile non è raro che in certe giornate si faccia sentire il freddo pungente, tanto da indurre anche la lepre a cercare riparo. Il proverbio si adatta anche a certi fatti umani, in cui uno crede di essere uscito totalmente da una situazione d’imbarazzo ed invece si accorge che c’è ancora qualche intoppo.

Is ogus no bint’ su coru no creit: gli occhi non vedono il cuore non crede. È proprio di San Tommaso: “Se non vedo non credo”! Mi viene in mente il sonetto “Amor è un desìo…del poeta Jacopo da Lentini della Scuola Siciliana: “Amor è un desìo che vien dal core // per abbondanza di gran piacimento; // e gli occhi in prima generan l’amore // e lo core gli dà nutricamento //…”

In domu de bonu coru no dho-y hat ni prata ni oru: in casa onesta ma povera, non c’è né argento né oro. Ma ci trovi pace, serenità, ospitalità ed amore.

Is fueddus no boccint a nemus: la parole non uccidono nessuno. Però c’è l’altro: boccit prus su fueddu de s’orteddu: uccide  più la parola del coltello. A questo punto noi diciamo: “ Ciascuno scelga quello che più gli aggrada”!

Is pentzamentus faint imbecciai prus che su tempus: le preoccupazioni fanno invecchiare più del tempo. E se tenti di fuggire da esse, inesorabilmente t’inseguono!

Iscura s’arjola chi timit fromiga: povera l’aia che teme la formica. Le formiche sono di casa nell’aia, ma se questa si lagna della presenza delle formiche lo può fare solo per due motivi, o perché è veramente povera, o perché è ingorda. Il proverbio si adatta perfettamente alle persone: al povero che si lagna, quando passano quelli del Comitato per i festeggiamenti del Santo Patrono per la questua, al ricco, che non apre neppure la porta, per la paura che le formiche (quelli del Comitato) possano prendere la sua “roba”.

Iscura sa domu sen’’e braba murra: povera la casa senza i vecchi. I consigli degli anziani sono un ottimo sostegno per la casa.

In s’airi brebeis acqua fintzas a peis. (In s’airi anjonis, acqua a muntonis). Nell’aria pecorelle acqua a catinelle.

Is malis de joventudi bessint in sa beccesa: i mali di gioventù escono nella vecchiaia. è una raccomandazione rivolta ai giovani, affinché conducano una vita sobria e moderata.

In su mori chi ses benìu, torradinci andai: nel sentiero in cui sei venuto, tornatene indietro. Lo si dice a chi si presenta davanti a noi a chiedere qualcosa di troppo.

In su mundu nemus est cuntentu: nel mondo nessuno è contento. È una vecchia storia!

Iscuru (scedau) a chini tenit depidu: misero chi ha debiti. Vi sono comunque quelle persone che lasciano ai creditori le preoccupazioni.

Is faulas tenint is cambas curtzas: le bugie hanno le gambe corte. È un proverbio comune.

In domu de su frau schidonis de linna: a casa del fabbro spiedi di legno. Sembra un controsenso, eppure è così. Mio padre, falegname, prometteva sempre che avrebbe costruito un bel portale di legno per l’ingresso del cortile della casa. Infine per le continue lamentele di mia madre, lo fece fare al fabbro, di ferro ovviamente!

In tempus de figu nì parenti, nì amigu: in tempo di fichi, né parenti né amici. Il fico è un frutto prelibato: mellus  a sa (mia) brenti che a su parenti.

Is hominis Deus dhus fait; issus s’accumpanjant: gli uomini Dio li fa; essi si accompagnano.

In s’hora chi nosu no scieus, torraus tottus s’anima a Deus: nell’ora che non sappiamo rendiamo tutti l’anima a Dio. Tocca a tutti, inesorabilmente ed imprevedibilmente! La “signora dalla falce” non guarda in faccia nessuno. È inoltre un “amministratore” che non cede alle tangenti.

Is horas passàdas no torrant accou: le ore passate non tornano indietro. Di quelle trascorse nel dolore ci resta il ricordo, di quelle felici ci dimentichiamo presto, di quelle passate inutilmente ci rimane il rammarico.

In d-onnya portali becciu dho-y hat ancious: in ogni portone ci sono chiodi. Le vecchie case conservano tristi ricordi.

 

ZZDICIUS/M

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DICIUS/M

Maccu de accappiai: matto da legare. Chi ne combina di veramente grosse, indipendentemente dall’età e dal sesso, è proprio un matto/a da legare e da rinchiudere. Quando la pazzia è furiosa si dice, maccu de cadena = matto da catena.

Maccu ses o figu bendis? = sei matto o vendi fichi? Evidentemente vendere i fichi non era una cosa normale.

Maccu/a cumenti ‘e una craba: matto/a come una capra. Non è vero che la capra è matta. È invece vero che preferisce andare per conto suo. Si dice anche, arreu che una craba: in giro come una capra. Questo vale per i maschi girovaghi, quanto per le girovaghe femmine. Quindi andrebbe meglio dire, vagabondo/a come una capra. Si aggiuge, sen’’e mèri = senza padrone.

Mai chi manchit cos’’e nai: non manca mai qualcosa da ridire. In certe questioni nasce sempre un punto di discussione. Soprattutto quando si discute di politica le discussioni non finiscono mai: “ A chini  dha bolit cotta a chini crua”! = chi la vuole cotta e chi cruda. Ma in fondo non è un grande male!

Mali fattu a scusi a craru jei bessit: male fatto di nascosto esce all’aperto. Le malefatte sono come le bugie: hanno il naso lungo e non riescono a nascondersi del tutto.

Mali s’hat fattu, praxèri ndi teneus: ci ha fatto male, è per noi un piacere! Un’offesa o un torto da parte di un nemico è un vero piacere, perché ci da l’autorizzazione a rispondere per le rime. Ma non sempre è così ed il verbo cristiano ci indica un comportamento del tutto diverso, che è ben lungi dalla vendetta!

Mali seus in bois e peus in baccas: siamo messi male a buoi e a vacche. L’espressione si usa per indicare le situazioni di disagio delle famiglie di allevatori. Le cause possono essere di vario genere.

Malu est s’unu e peus est s’atru: cattivo è l’uno e peggiore l’altro. Quando si parla di una coppia di poco di buono, o di due fratelli o amici di cui è meglio non fidarsi, si usa questa espressione. Talvolta però il detto viene usato in senso bonario, cioè per indicare non tanto dei cattivi quanto invece dei birboni.

Mandaresu scua cuaddus: di Mandas che taglia la coda ai cavalli. Che questa sia una vera usanza di Mandas non è dato di sapere, perché anche in altre parti della Sardegna  e del mondo si usa tagliare la coda dei cavalli. Evidentemente quelli di Mandas si sono conquistati questo primato sardo. Del resto i quartesi sono ben noti come mangiatori di cani.

Manighedda e goteddeddu: manico e lama (del coltello). Si usa questa espressione per indicare due persone, solitamente moglie e marito, che litigano tra di loro e che si danno filo da torcere a vicenda. Per lo più come il precedente: malu est s’unu e peus est s’atru.

Mannu che si Piccu de Mobetza: grande che il lastrone(di granito) di Mobetza. È un detto usatissimo nel paese di Gonnosfanadiga (Medio Campidano). Era ed è ancora la risposta che, ad esempio, una madre da al proprio bambino che chiede più di quanto gli sia concesso: “Mamma dh’ ‘òllu mannu, mannu (un pezzo di pane, un biscotto)”! = “ Mamma lo voglio grande, grande”! La risposta: “ Mannu est si Piccu de Mobetza”! In realtà si tratta di un grosso lastrone di granito, che si trova ancora oggi nella località del territorio del Comune di Gonnos.

Marjani becciu tottu cou: vecchia volpe tutta coda. Anche questa espressione viene bonariamente e spesso usata dalle mamme per prevenire o sventare la furbizia dei loro bambini.

Marjani perdit su piu ma no is trassas: la volpe perde il pelo ma non il vizio. In certe persone certi vizi (di rubare ad esempio) non cessano nonostante l’età.

Mellus a dhu disijai che a dh’arrosci: meglio desiderare che aborrire (rifiutare). Si dice anche per un tipo di vivanda. In effetti quando un cibo si desidera si mangia volentieri, quando poi diventa il pasto di tutti i giorni, la “voglia” viene meno. Si adatta bene anche a tante altre situazioni umane.

Mellus a dhu perdi che a d’agattai: meglio perderlo che trovarlo. Si dice di uno scocciatore, e, comunque, di una persona che non gode certo della nostra ammirazione e che accettiamo solo per causa di forza maggiore. Si può riferire anche ad un uomo politico o amministratore che non vogliamo, ma dobbiamo accettare, nostro malgrado.

Mellus a sa (mia) brenti che a su parenti: meglio alla mia pancia che non a quella del parente. La “scarsa generosità” anche tra stretti parenti, può essere determinata da diverse motivazioni!

Mellus a sudai che a sturridai: meglio sudare che starnutire. Sudare fa bene perché è spesso l’effetto della fatica, per cui mettiamo in movimento il corpo e le nostre energie. Lo starnutire invece è il primo segnale del raffreddore o dell’influenza in arrivo.

Mellus a timì che a provai: meglio temere che provare. Temere prima che provare non significa mancanza di coraggio. Coraggio e temerarietà sono due sentimenti ben distinti. Il coraggio presume la paura; la temerarietà ( provare a tutti i costi, senza ritegno alcuno delle conseguenze) è solo pazzia!

Mellus bistiu a barattu che spollau a caru: meglio ben vestito a buon prezzo che semi vestito a caro prezzo. Si dice inoltre, in tono col proverbio, fatzat callenti e arriat sa genti: faccia caldo e rida pure la gente.

Mellus civraxu in domu mia che coccòi in domu allena: meglio il pane nero ( di cruschello) in casa mia, che il “pane duro” ( di fior di farina; di pura semola) in casa altrui. Così ribadiva spesso anche Ludovico Ariosto. È proprio del povero che si accontenta del suo e che non ama fare le riverenze!

Mellus dolori de bussa che dolori de coru: meglio il dolore del portafoglio che il dolore del cuore. i mali del cuore sono spesso più gravi di quelli della “borsa”. È però certo che, a chi ha sempre la borsa vuota, prima o poi vengono anche i mali di cuore!

Mellus mortu tui che deu: meglio la tua morte che la mia. È proprio dell’egoista. Non dimentichiamo però che l’uomo è egoista per natura. O, per meglio dire, pensa prima a se stesso e poi agli altri. Ma c’è anche il detto, onnyùnu po sei e Deus po tottus = ciascuno per se e Dio per tutti. Quando poi uno è pronto a sacrificare la propria vita per gli altri è senza dubbio un Santo o un eroe.

Mellus poburu e sanu che arriccu e maladiu: meglio povero e sano che ricco e malato. Non ci sono dubbi! La salute è la cosa più importante della vita.

Mellus solu che mali accumpanjau: meglio solo che male accompagnato. Nella vita è sempre meglio essere insieme agli altri: l’uomo “è fatto per vivere in compagnia” = s’homini est fattu po bivi in cumpanjìa. Come ho scritto nell’omonima canzone in “Matzamurru e Burrumballa”. Ma quando amici e compagni sono di mala indole è preferibile stare da soli.

Mellus trigu arau che trigu pappau: meglio il grano arato che il grano mangiato. È scontato anche questo, ma non possiamo piangere su quello che abbiamo mangiato!

Mellus u’ segrestanu biu che unu predi mortu: meglio un sacrestano vivo che un prete morto. Per ovvie ragioni. Si dice anche: mellus u’ burriccu biu che unu arrettori mortu: meglio un asino vivo che un vicario( parroco) morto. Anche qui, nonostante il banale confronto, le cose sono ovvie.

Mellus ua pudda oi che u’ boi crasi: meglio una gallina oggi che un bue domani. Non sempre è così, in certi casi è più conveniente attendere: sa pressi meda porta mali = la grande fretta porta male.

Mèri susunca serbidora furunca: padrona tirchia serva ladra. Le due cose si compensano: “ Se tu non mi dai quanto mi spetta, melo prendo comunque”! Nell’un modo e nell’altro l’onestà va a farsi benedire!

 Mes’’e Idas dies malas e festas nodìdas: dicembre, giorni brutti e feste belle. È riferito al Natale ed alle feste natalizie in genere.

Mi batti su coru che topi in casiddu: mi batte il cuore come al topo in trappola. Quando uno si trova in un particolare momento di emozione più che di paura, usa questa espressione.

Mi zumiant is origas: le orecchie mi fischiano. Si aggiunge, fastimmu de predi: maledizione di prete. I malauguri dei preti un tempo erano temutissimi. L’espressione si usa anche in altre situazioni, ad esempio quando uno ha fatto uno sgarbo o reso la pariglia ad altra persona, ha l’impressione( si tratta in effetti solo di fondato sospetto) che quest’ultima gli mandi continue maledizioni.

Modas nobas in terras beccias: mode nuove in terre vecchie. Agli anziani pare strano, ma purtroppo le nuove mode travolgono le tradizioni. È il risultato della globalizzazione.

Monjas de sant’Agostinu duas concas in unu coscinu: suore di Sant’Agostino due teste in un solo cuscino. È riferito al fatto che dormivano in due per cella con un solo lettino, tra l’altro di una sola piazza. I maliziosi avanzano altre ipotesi!

Mortu oi scaresciu crasi: morto oggi dimenticato domani. “Sol chi non lascia eredità d’affetti, poca gioia ha dell’urna…”! Dice il Foscolo ed ha tutte le ragioni del mondo.

Mortu su pippiu finiu su Sant’Uanni: morto il bambino finito il comparatico. Non sempre è così; spesso, nonostante venga a mancare “l’oggetto” del legame, il rispetto e l’amicizia restano per tutta la vita; così come possono mancare anche se il bambino rimane in vita: sciusciàu su Sant’Uanni: finito il comparatico!

Mratzu pruinosu messaiu tinjosu: marzo piovoso massaio tignoso. Le piogge abbondanti nel mese di marzo causano danni ai campi seminati (su lori o laori = i cereali in genere ed in primo luogo il grano).

Mratzu siccu messaiu arriccu: marzo secco massaio ricco. Il mese di marzo secco e soleggiato favorisce la buona crescita dei cereali. ( il contrario del precedente: mratzu pruinosu…).

Musica pagàda fait sonu malu: musica pagata fa suono brutto…soprattutto per chi paga!

 

 

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DICIUS/L

Landiri a famini parrit castanja: quando la fame si fa sentire, le ghiande paiono castagne. Per indicare la fame si usano tante espressioni, tra cui: famini a conca de genugu: fame a testa di ginocchio; famini che il fillus de Conca ‘e Peddi, chi s’ianta pappau su corpettu de su babbu: fame come i figli di Conca ‘e Peddi, i quali mangiarono il corpetto del loro padre. Etc.

Linna segàda de Luna bona: legna tagliata con la Luna favorevole. Si aggiunge: genti sentzèra: gente di giudizio. Non che c’entri tanto la Luna col carattere delle persone, ma quando si incontra una persona di giudizio solitamente si aggiunge: linna segàda de Luna bona. Quanto poi effettivamente interferisca il nostro satellite sul carattere della gente è tutto da verificare.

Lassai cument’’e marraconis sentza de casu: lasciare come maccheroni senza formaggio. Quando una cosa va a pennello si dice: “Come il cacio sui maccheroni”. Al contrario invece: “ Come maccheroni senza formaggio”.

Lassai su mesedu po s’aresti: lasciare il mansueto per il selvatico. Si adatta a diverse situazioni umane. Indica chi lascia una cosa facile per una difficile; chi preferisce vivere in campagna piuttosto che in città; chi una vita avventurosa ad una tranquilla; chi allevare in casa una tigre più che un sambernardo; etc.

Liàga noba allebiat sa beccia: ferita nuova allevia la vecchia. Ma non sempre è così, perché spesso una nuova ferita aumenta ancor di più il dolore.

ZZDICIUS/N

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DICIUS/N

Nomenau su molenti, labìdhu presenti: nominato l’asino eccolo qui. Questa espressione si usa per scherzo quando, in mezzo ad un gruppo si discute di una persona assente, che arriva improvvisamente. Poiché trattasi di un detto comune a tutta la Sardegna, la persona interessata, pur presa per asino, solitamente non se la prende.

No nc’est mali sentza de intzimia: non c’è male senza causa. Ogni male ha sempre una causa alla sua origine. E spesso ai mali naturali si aggiungono quelli causati direttamente dall’uomo, ad esempio: le guerre.

No timast is mortus, ma timi is bius: Qualcuno crede  ancora che i morti tornino in vita per far male ai vivi: fesserie! Il vivo, il male, se lo deve aspettare dai vivi, non certo dai morti, i quali ormai non sono più in grado di offendere nessuno.  

No dhu pagat dinai (oru): non lo paga denaro(oro). L’espressione si usa per indicare quelle persone che credono di essere di invidiabile importanza(millantatori). Noi commentiamo così: “ Jessu! No dhu pagat dinai”. “Perbacco(Gesù)! Vale più di tutto l’oro del mondo”.

No teni nì arti e nì parti: non avere né arte né parte. Si dice così quando uno non ha niente a che fare in un affare, in un contesto, in una situazione.

No has andai a cresia po sa penitentzia: non andrai in chiesa per la penitenza. Si dice così ad uno che compie un errore, una mancanza, un atto non dovuto, per cui è previsto il pentimento. Ma  la quantità e la qualità della punizione non le conoscerà per certo dalle parole del prete.

Nieddu che sa pixi: nero come la pece. E’ un detto comune che si usa per indicare un oggetto, un animale, una persona completamente neri. Altrimenti per dare risalto ad una situazione psicologica particolarmente scabrosa, a marcato avvilimento, ad un momento di ansia dovuta ad una lunga attesa o ad altre situazioni per lo più dolorose. “Seu nieddu che sa pixi”! = “Sono nero come la pece”!

No ballit un arriali: non vale un “reale”. Si dice comunemente di una persona che non vale niente o quasi. Un arriali era una moneta del valore di poco meno di due centesimi: cioè, poca roba!

No dhi bastat nì birdi e nì siccau: non gli basta né verde né secco. Il detto si adatta agli scialacquatori in primo luogo, ma anche agli avidi. L’avidità dell’ingordo non ha limiti. // Ed una lupa, che di tutte brame // sembiava carca ne la sua magrezza, // e molte genti fé già viver grame…” L’avidità umana è rappresentata da Dante nel 1° canto dell’Inferno, con la lupa.

Naramidha cun chini bandas e t’happ’a nai a chini ses: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. È un vecchio proverbio, sempre valido, anche se vi sono eccezioni.

Nemus nascit imparau: nessuno nasce colto. La cultura si apprende. Il bambino impara da quello che vede, sente, ode e tocca, dai genitori in primo luogo e poi a scuola dai docenti e dai compagni e dal prossimo in genere.  Quando però vediamo un bambino che apprende più facilmente e velocemente degli altri diciamo subito: “ Balla! Cussu est nasciu imparau”! “Perbacco quel bambino è nato già colto (“imparato”)”!

No mi nd’intrat, no mi ndi bessit: non mene entra, non mene esce. Per dire che non ce ne importa niente di un fatto o di una notizia in genere.

No arriast mai de is malis de is atrus: non ridere mai delle disgrazie degli altri. Porta male ridere dei mali altrui. Si crede, comunque. Per certo, se palese,  è un atteggiamento che può offendere seriamente.

No disigist su chi no podis teni: non desiderare ciò che non puoi avere. Capita talvolta a molti di desiderare cose impossibili o quasi. La prudenza ci invita a tirarci indietro in tempo, onde evitare situazioni imbarazzanti.

Nì sabudu sentz’’e soli, nì femmina sentz’’e amori: né sabato senza sole, né donna senza amore.

No dispretzist mai cosa in domu allena: non disprezzare mai una cosa in casa altrui.

Nì femmine, nì tela, a luxi de candela: né donna, né tela a luce di candela.

No teni fillus e prangi fillastus: non avere figli e piangere figliastri. Qundo uno piange per cose che non lo riguardano etc.

 

   

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