ZZLa Carta De Logu di Eleonora d'Arb.B
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- Pubblicato Domenica, 24 Novembre 2019 11:59
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ZZ La Carta de Logu di Eleonora d’Arb. B (Seconda parte)
Capitolo XLV°: ordinanze per il fuoco > ordinamentos de Fogu. L’ordinanza vieta di accendere il fuoco nelle campagne sino al termine della festa di Santa Maria e cioè sino all’8 settembre. N.d.R.: il 9 settembre iniziava l’anno agricolo. A partire da tale data, venivano rinnovati i contratti riguardanti l’agricoltura e la pastorizia. > chi nexuna persona deppiat, ne pozzat ponni fogu infini a passàda sa festa de Santa Maria, chi est a die ottu de Capudanni (settembre). Chi non obbedisce all’ordinamento paghi lire 25 di multa oltre i danni. Dal 9 settembre si può accendere il fuoco in campagna , purché non rechi danno ad altri. Se infatti procura danno… paghi lire 10 di multa , ,oltre il danno… o altrimenti sarà condotto in prigione e vi starà a volontà del Giudice. N.d.R. l’ordinamento non contiene la data di inizio in cui è proibito il fuoco nelle campagne, ma la si può dedurre dal capitolo XLIX, in cui è citata la data del 29 Giugno (Làmpadas), come scadenza per la creazione delle fasce antincendio.
Capitolo XLVI°: chi appicca il fuoco volontariamente in casa altrui…e causa danno a cose e persone … sia legato ad un palo e bruciato vivo > e siat juygadu dellu ligari a unu palu e fagherillu arder.
Capitolo XLVII° : chi causa incendio nell’aia col grano mietuto o al campo di grano non mietuto o a vigna o a orto… sia condannato a pagare il danno e la multa di 50 lire alla Corte… e se non paga gli venga amputata la mano destra.
Capitolo XLIX°: … creare una fascia antincendio… > de fagheri sa doha pro guardia de su fogu. Ciascun villaggio, nelle sue campagne… > ciascaduna Villa in s’habitacioni sua… pro Santu Pedru de Lampadas ( per san Pietro di Giugno - 29 -). N.d.R. sa doha è la striscia o fascia antincendio. Deriva dal latino doga, che però significa recipiente. In lingua sarda doa o doga de carràda è la doga della botte. > chi fogu nolla barighit sa ditta doha = che il fuoco non superi detta striscia; > e si fogu illa barighit e faghit perdimentu = e se il fuoco supera detta striscia e crea danni… quel villaggio paghi dieci soldi per uomo ed il Curatore de Villa (alias Mayore) paghi dieci lire alla Corte.
Capitolo L° >Ordinamenti su Liti e Citazioni. > Ordinamentos di Chertos e Nunzas (Chertos dal latino certare = litigare: Certidus in Campidanese); Nunzas dal latino nuntiare = citare in giudizio, intimare (si dice in lingua sarda ghettai is intimas = intimare. Fra le varie citazioni: la prostituta che ruba in casa del drudo è tenuta a rendere ciò che ha rubato ed altrettanto vale per il drudo che ruba in casa della concubina.
Capitolo LI° > Testamenti ed ultime volontà > Dessos Testamentos ed ultimas Voluntadis: considerata la mancanza di notai, nell’isola, o il loro esiguo numero, viene stabilito che le buone e pie cause non restino senza compimento e che i testamenti siano validi (bagiant) come fatti dai notai, purché siano fatti nella forma dovuta > in sa forma dépida: generalmente per mano del curato del villaggio no da pubblico scrivano o dall’ufficiale della Contràda o da uno scrivano del posto, ma in questo caso, alla presenza di un minimo di 5 testimoni > chi si pozzat fagheri per manos de alcunu Scrivanu dessu logu, inpresencia de chimbi testimongios pro su minimu.
Capitolo LII° > gli avvisi di garanzia: per una casa, un fondo o altro possesso. Quando la denuncia è di Corona de Logu over de Corona de Chida de Berrùda. N.d.R. Sa Corona de Logu è il Tribunale Supremo, ,presieduto direttamente dal Giudice del Giudicato di Arborea. Per quanto riguarda Sa Corona de Berrùda c’è incertezza: era un Tribunale di Anziani, muniti di berrùda cioè di bastone (di ferro?) che li distingueva, con funzioni settimanali (chida), come suppone il commentatore Don Giovanni Maria Mameli de Mannelli, ed anche il canonico Spano, o era invece un Tribunale formato da una squadra di giovani armati di Berrùda (lunga lancia con asta di legno duro (0livastro?) e punta di ferro) > sa Chida de Berrùda, incaricata della vigilanza settimanale (Chida) dei confini (iscolcas) del territorio della Contrada o del Giudicato.
Le Citazioni al Tribunale Supremo: sa Cporona de Logu; o al Tribunale di Chida de Berrùda: per una casa, un fondo o un qualsiasi possesso si svolgono secondo la prassi seguente: chi espone denuncia sia messo sotto giuramento davanti al Curatore del Processo, il quale a sua volta ripete la Citazione in presenza di tre uomini (come Testimoni), ma se trova l’interessato (il querelato) gliela da personalmente e gli fissa l’udienza; se non lo trova, lascia l’avviso nella sua casa d’abitazione, sempre in presenza di tre uomini del villaggio, come testimoni. Il citato in giudizio, si deve presentare davanti al Giudice entro 8 giorni o un massimo di 15 giorni, per rispondere, sempre davanti al Giudice alla persona che lo cita. Se il denunciato non si presenta entro il tempo stabilito, il possesso, o casa o altro, oggetto della lite, è concesso al querelante. Ma se il querelante si presenta entro un anno dall’ultima citazione e paga tutte le spese nel frattempo sostenute, rientra provvisoriamente in possesso dell’oggetto in causa, sino a che il Tribunale emetta sentenza definitiva. Finito il Processo, sarà compito dell’Armentario di Corte dare soddisfazione al vincitore, come a lui parrà giusto: > segundu chi hat a prri de attaxàri a s’Armentariu Nostru de Logu. N.d.R. > attaxàri deriva probabilmente dal latino taxare, nel significato di stabilire o determinare i prezzi, le somme dovute e le quote per le spese del processo.
Capitolo LIII° Delle Citazioni del Tribunale Maggiore o del Tribunale di Chida de Berrùda o del Tribunale di Porto o altro. Se l’accusato non si presenta nei termini stabiliti (in contumacia) > non compargiat in termen – per la prima volta non perde la causa, ma paga 6 Lire di multa, 20 Lire la seconda volta; alla terza perde la causa, secondo l’antica usanza e ciò s’intenda per il caso in cui un sardo denuncia un continentale e viceversa > e simigiamenti s’intendat pro su Terramingiesu a su sadru o su sadru a su terramingiesu. N.d.R.Terramingiu/zu o Terramanna è il Continente e terraminzesus o terramannesus sono i continentali. Se la persona citata non può presentarsi all’udienza e però presenta prova che dimostri la causa di forza maggiore, non perda la causa, anche se non risarcisce la spesa alla persona che l’ha citata.
Capitolo LIV° Citazione per imbroglio o per altro torto. Chi denuncia una persona per malefatta e l’interessato trova la denuncia e scappa per paura; rinnova la denuncia e non trova la persona, consegni la citazione alla sua casa in presenza di testimoni, se vi trova qualcuno. Se il querelato non si presenta entro 15 giorni, perde la causa.
Capitolo LIX° Sul prestito o altro mutuo > dess’imprestanzia chi si fait s’unu a s’ateru. E si giunge al litigio e si chiami la Corte a decidere chi perde e chi vince. Chi denuncia paga alla Corte di quattro uno (un quarto) per il mutuo, di cinque uno per il prestito.
Capitolo LXIV°. L’uomo di buona fama non sia messo a tortura, > de no poni s’homini de bona fama a turmentu pro chertu de fura. Se l’uomo è di cattiva fama possa essere messo a tortura > si cuss’homini est de mala fama si pozzat mittere a turmentu. Se è di buona fama e non ci sono testimoni che egli sia messo sotto giuramento dal Giudice e sia poi libero se si dichiara non colpevole dall’ accusa mossa contro di lui.
Capitolo LXVII° - Chi possiede per 30 anni e più terra pubblica, ecclesiastica o privata. (è il capitolo che tratta l’usucapione), secondo la Carta de Logu. Chi possiede terra pubblica – De su Rennu – per più di 50 anni o terra della Chiesa per più di 40 anni, o terra privata per più di 30 anni e nel suddetto periodo non viene richiesta dai legittimi proprietari, ne divengono padroni a tutti gli effetti. (Clausola > purché non ci siano orfani o minori, i quali non hanno avuto l’opportunità di reclamare > e non prejudichit assos orfanos e minoris , che non accattatint tempus de dimandari sa rexoni issoru < N.d.R. Il Capitolo è estremamente interessante sotto l’aspetto storico, giuridico ed economico: salvaguarda persino i minori di età e gli orfani. Sotto l’aspetto storico ci sembra bene fare riferimento ad esempi di altre esperienze; l’usucapione per le terre private trova infatti riscontro nei Placiti Benenettini (scritture e testamenti che vengono ricordati dai testi scolastici di Storia della Letteratura Italiana come primi documenti del Volgare Italiano - siamo intorno al 960), tra i quali uno recita: Sao Co Kelle Terre Per Kelli Fini Que Ki Contene, Trenta Anni Le Possete Parte Sancti Benedicti = so che quelle terre, contenute entro quei confini, le ha possedute per trenta anni l’Amministrazione del Convento di San Benedetto.
Capitolo LXIII° - Chi possiede legittimamente un oggetto, un arnese, o altro, per almeno tre anni e non gli viene richiesto per tutta la durata delenta padrone > passadu su dittu tempus (de annos tres), non indelli pozzat esser fatta plus questioni.
Capitolo LXXI° per la costituzione dei Tribunali (le Corone) e come istruire i Processi. È un capitolo di notevole importanza: ne riassumiamo in breve i contenuti. Essi, i Tribunali ( Coronas), devono essere composti da almeno 5 uomini. Chi manda le citazioni (is intimas, diciamo noi in campidanese), può chiamare a testimoniare sino a dieci persone. Lo scrivano (su scrianu = il cancelliere) deve registrare tutto. I testimoni devono aver compiuto 18 anni di età > né pozzat chiamari homini perunu pro testimongiu, chi non havirit detghiottu annos cumplidos. I testimoni devono prestare giuramento e testimoniare davanti ad ambo le parti. Prima però l’Ufficiale o Curatore del Tribunale (de Corona), con lo scrivano e tre giurati, devono esaminare e chiedere ad uno ad uno, separatamente e che nessuna delle parti li senta e che venga messo a verbale tutto quello che dicono e che detti verbali siano recitati durante le Udienze. Le Parti poi potranno accettare o respingere quanto verbalizzato, per cui, per trovare prove pro o contro, hanno tempo di 8 giorni. Il Presidente e la Giuria decideranno in base a ciò che loro parrà giusto. Ma che nessuna sentenza possa andare contro la Carta de Logu > in coscienza dessas animas issoru, sa megius ragioni e justicia … non judicando però contra sa Carta de Logu < pena la non validità della sentenza e la multa (questa non poteva mancare !).
ZZ la carta de logu 10
Capitolo LXXII. Procuratori o Avvocati non possono esprimere giudizi o fungere da Giudici, pena la multa di Lire 25 per ciascuna volta in cui giudicano > a pena de liras vintichimbi pro ciascaduna volta chi judicarit <. L’Ufficiale che ne chiama uno e lo lascia giudicare, ben sapendo quello che fa > ischiendolu < paghi pure lui l’ammenda di lire 25 ed il giudizio sia nullo e di nessun valore. N.d.R. Gli Avvocati o i Procuratori ( in questo caso il significato di Procuratore è di persona munita di procura e cioè rappresentante volontario di una persona, sia fisica che giuridica, e agisce in nome e per conto di questa. Questi non possono fungere da giudici ed emettere sentenze.
Capitolo LXXIII° per riscontro del precedente capitolo. … Che nessun Uditore , Ufficiale o Notaio possa essere Procuratore o Avvocato nel suo Ufficio. Cioè nessun Uditore della Nostra Udienza né Ufficiale, Maggiore o Minore può fungere da avvocato nell’esercizio delle proprie funzioni. N.d.R. Il termine uditore era la qualifica che avevano alcuni magistrati civili ed ecclesiastici. L’uditore era quindi un giudice o magistrato ordinario all’inizio di carriera o giudice istruttore degli atti dei Processi. Oggi nei Processi Il Procuratore o Procuratore della Repubblica rappresenta la pubblica accusa per parte dello Stato. Nella Carta de Logu il Procuratore è un rappresentante volontario (in difesa) di una persona privata o di persone private.
Capitolo LXXIV° I Testimoni. Sardi o Continentali sono chiamati a testimoniare e devono prestare giuramento davanti al Presidente del Tribunale > siant tenudos de jurari in manos dess’Officiali de sa Corona <.
Capitolo LXXV° Per falsa testimonianza. Chi testimonia il falso e lo fa coscientemente, paga 50 Lire di multa (machicia) alla Corte (a su Rennu), entro 15 giorni dalla sentenza. Se non paga gli si metta un amo alla lingua e sia condotto a suon di frustate per tutto il territorio sino all’immondezzaio, nel quale gli venga tagliata la lingua e sia poi lasciato libero e non gli sia più data fiducia per sempre e per nessun motivo > paghit liras chimbanta infra dies bindighi e si non pagat siat illi missidu unu amu in sa limba e giugatsi (*) affrustando po tota sa Terra infini a su muntonargiu ed innie s’illi tagit sa limba. (*)Giugatsi viene da giughere, del valore del latino ducere = condurre.
CapitoloLXXVII°. Per le cause di grande importanza e dove sussiste incertezza (cioè in caso di difficoltà ad esprimere giusta sentenza), il Giudice (ufficiale) si consulti con i nostri Savi (il Consiglio degli Anziani di Corte). Per una questione di giustizia, qualora, nelle grosse ncause, non si raggiunga un verdetto unanime > dessu quali sos Lieros (giurati, componenti la Giuriia) de sa ditta Corona (Tribunale) esserint perdidos e divididos in su jugari issoru…, intervengano i Savi di Corte a nominare il Giudice che deve reggere il Tribunale … e la sentenza sia letta e pubblicata e mandata ad esecuzione se non c’è appello entro 10 giorni… > si appelladu non est infra tempus legittimu de dies deghi, cumenti cumandat sa Leggi ( nelle Cause di rilevante importanza, nelle quali c’erano difficoltà ad esprimere il verdetto, interveniva il Tribunale Superiore ( della Corte), che emetteva sentenze inappellabili.
Capitolo LXXVIII° - quando in una lite una parte si sente troppo gravata dalla sentenza … si possa Appellare almeno due volte e non oltre, ma nello spazio di tempo stabilito di giorni 10, come comanda la Legge > si pozzat, si volit, appellari, intra su tempus ordinadu dae sa ragioni, duas voltas … e non si pozzat appellari plus.
Capitolo LXXIX° > i ricorsi in Appello che si facciano per iscritto. I ricorsi si fanno a viva voce o per iscritto, sempre nei giorni dieci stabiliti > viva voce o per iscrittu infra dies deghi… dalla sentenza. L’Appello scritto deve essere presentato alla Corte entro altri 15 giorni, qualora la mancata presentazione non sia per trascuratezza del Notaio o dello Scrivano > si già non remanerit pro culpa dessu Nodayu over Scrianu, chi nollu darit a su processu infra su dittu tempus…
Capitolo LXXX° > Che non si possano portare in Appello le sentenze che comprendono pene pecuniarie sotto i cento soldi (= dieci lire). Per risparmiare spese ai nostri sudditi e litiganti … non si debba fare appello su questioni o liti sotto i cento soldi > supra alcuna questioni nostra o chertu , chi esserit dae centu soddos ingiossu … se pure si faccia l’appello , non abbia valore alcuno > in casu chi s’appellarit, volemus chi ditta appellacioni non bagiat.
Capitolo LXXXI° La caccia nei boschi, riserve del Curatore de Villa. È dovere degli uomini dei Villaggi e delle Curatorie (Riserve di caccia del Curatore) di andare a caccia almeno una volta l’anno e di consegnare la preda al Curatore e che il Liere de Cavallu (il guardaboschi o il guardacaccia) che verrà citato e non ci andrà, paghi due soldi al Curatore, se non presenta giustificazione attendibile. > e chi su Liere de Cavallu, chi hat a esser nunzadu e non illoy andarit, paghit a su Curadori soddos duos, si veramenti non havirit excusa legittima. Il territorio boschivo era riservato, almeno in parte, alla caccia del Curatore,. Il quale provvedeva anche alla mensa del Giudice.
Capitolo LXXXII°: Per chi non porta le prede uccise al luogo di raccolta. Se un cacciatore cattura una preda, cinghiale o cervo o daino e non la porta al luogo di raccolta (su goletorgiu - vedi nota) e non hat a venner a goletorgiu cun su pegus – paghi per multa (machicia) al Regno (su Rennu) un bue e per il Curatore dieci soldi (una lira) > levintilli pro su Rennu boi unu e pro su Curadori soddos deghi. Nota n° 144 del testo: il commentatore Don Giovanni Maria Mameli de Mannelli non chiarisce l’etimologia del Termine Goletorgiu (luogo di raccolta) mentre ne da il giusto valore semantico. Ia parola deriva dal tardo latino Collectorium, che ha proprio il significato di luogo di raccolta: deverbale da colligo – colligere = raccogliere).
Capitolo LXXXIII°. Per chi entra armato nella riserva di caccia. Ordiniamo che all’uomo che va a caccia armato in riserva o nostra (de su Rennu) o del Curatore (de Villa) gli vengano tolte ( per ammenda) 10 pecore se si tratta di riserva nostra (de su Rennu), un bue se si tratta di riserva del Curatore e perda inoltre l’arma, ma la pena non viene inflitta per la verga (asta), il coltello o la spada. Nota: non si capisce bene cosa si intenda per uomo armato (armadu): non si può pensare ad arma da fuoco, tipo archibugio, perché troppo presto; si può invece pensare a lacci, reti ed alla balestra: infatti con questi attrezzi era molto più facile catturare cinghiali, daini, cervi e mufloni.
Capitolo LXXXIV. Per chi ruba cervo al segugio. > De chi hat a levari su cerbu dae su Jagaru (vedi Nota n° 1). E sopraggiunge il battitore > e lompit (nota n° 2°) illoy su Canargiu – e il ladro non restituisce la preda > e non torrat su pegus – paghi un bue al Regno (a su Rennu) e venti soldi al battitore, se riesce a convincerlo a darglieli, dei quali soldi un terzo vada al Curatore. Nota 1^: su Jiagaru è un cane da caccia o meglio da seguita (segugio), per distinguerlo da cani de Loru (cane da guardia): vedi cap. XXX°; ma proprio di recente ho sentito da un cacciatore di Gonnosfanadiga il termine Jagareddu, per indicare un piccolo segugio. Nota 2^: lompit, indicativo presente da lompiri = giungere, arrivare, pervenire; in latino troviamo clompere, con lo stesso significato. Nel Condaghe di San Pietro di Silki, al cap. 5, troviamo … et clompet assa petra longa de Arave (località, villaggio scomparso, i cui resti di trovano in territorio di Usini)), che tradotto in Campidanese attuale recita … e nci lompit (arriva) assa Pedra Longa de Arave.
CapitoloLXXXV°. Per chi mette erbe tossiche nelle acque: torrenti, ruscelli e bacini; ovvero euforbie (dittinella, Dafne Gnidia) per la pesca, prima di San Michele di Settembre (29) - > de chi hat a cundiri abba over alluàri innantis de Santu Miali de Capudanni > chi viene trovato a fare tali cose paghi al Regno soldi 20 ed al Curatore soldi 10 = una lira. È compito dell’Ufficiale fare la vigilanza e coinvolgere le guardie secondo quanto già disposto dalla Carta de Logu cap. XIX° Oggi, ruscelli e torrenti subiscono sorte peggiore, perché al posto delle euforbie ( sa lua o su truiscu) mettono il cloro se non addirittura liquidi velenosi, che annientano letteralmente la fauna ittica dei corsi d’acqua dolce.
Capitolo LXXXVI°. Per le persone che usano pesi e misure false: stadera o canna (vedi nota ). Se una persona viene sorpresa dai nostri controllori ad usare pesi e misure false … sia condannato a pagare alla Nostra Camera (assu Rennu) la multa di lire 25. Volemus et Ordinamus chi cussa persona chi s’hat accattari perì sos Officialis nostros, mesura o stadea falsa, siat cundennàda di pagari assa Camara Nostra vintighimbi … a bindighi dies (entro 15 giorni… e se non paga … assu dittu termen, siat affrustàda pro tottu su logu hui hat a haviri cummissìdu su delittu ( … entro la detta scadenza e sia fustigata in tutti i posti, in cui ha commesso frode. Nota: prima del sistema metrico decimale, per misurare i terreni si usava una “canna”, la cui lunghezza variava da regione a regione, anche se di poco; ad esempio in Sardegna era di circa dieci palmi, cioè di circa 2 metri e mezzo. La Stdera è la bilancia tradizionale, formata da un’asta orizzontale (tarata in chilogrammi e frazioni mediante suddivisone a tacche, lungo le quali scorre un peso “equilibratore”), retta da un gancio superiore, che sorregge a sua volta, un altro gancio, che funge da fulcro, a cui è appeso, con catenine, un piatto metallico, generalmente di rame o di ottone, su cui si deposita la merce, che si vuol pesare. In quasi tutte le “vecchie case” dei paesi della Sardegna, la stadera è presente, generalmente appesa ad una parete della cucina, sempre lucida ed efficiente.
ZZLA VITA DEI CAMPI IN SARDEGNA
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- Pubblicato Venerdì, 30 Giugno 2017 05:43
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A-A LA VITA DEI CAMPI IN SARDEGNA (BIBLIO: la vita rustica di Max Leopold Wagner; lì Agricoltura di Sardegna – di Andrea Manca Dell’Arca)
A cuaddu incoscia (incoča): a cavalcioni.
A fai su bitti porta: riportare i fatti degli altri; comportarsi da pettegola/o, etc.
A lìa a conca > a scapparroni: sono due modi simili per trasportare un sacco (pieno a metà circa), o un fascio di legna da ardere, con la testa e la forza del collo > a lìa a conca: si lega il sacco all’estremità aperta, con un legaccio ( lìa, che deriva da liga spagnolo = legaccio), così da formare una specie di cappuccio, che si infila in testa ed il carico poggia sulla schiena, ma la parte più sottoposta allo sforzo è il collo. > a scapparroni (dal genovese scaparron = scampolo): sta ad indicare lo scampolo o fazzoletto o un qualsiasi pezzo di stoffa o sacco, che viene più volte piegato e messo così sulla parte centrale della testa, da temporale a temporale, su cui poggia il cappio, che si ricava dalla fune mediana che cinge e lega il gfascio di legna o altro. Lo scapparrone attutisce quindi la pressione della fune, che sorregge il carico, sulla testa; ma per la maggior parte la pressione è sulla schiena.
A trottoxu, trottošu: in modo contorto, attorcigliato = trottoxau, trottošau. Contorto, riferito anche a persona, discorso, modo di comportarsi.
A trumbullonis: (trumbulla, trumbulla) = a stento, a fatica, in maniera sconvolta, con confusione, scompiglio, etc. da trumbullu, dev. da trumbullai = sconvolgere, intorbidare. Ma può derivare anche dal logudorese trumbulare = fare capitomboli ? (da completare).
Abacu: s’abacu = l’abaco (dall’italiano); in latino abacus; in grecoἉbax.; apcar.
Abarigau: dopo domani; appustis cràs; dal latino varicare.
Abarrai, abarrare = rimanere: dal catalano barràr, embarràr. Probailmente dal greco βαρΰς, peso; έβάρεσα = son gravato, quindi sto. Abarrai: rimanere > abarrar (spa) > trogamidha troga (lat. torquere) = perdere tempo.
Abba: acqua, intesa anche come pioggia. A mratzu a untùra, a abrìli a trasùra. Abba crasta: vedi Crasta.
Abbadrinu: acquitrino (dall’it.)
Abbardzu = fai sa cora per lo scolo delle acque piovane (vita rustica) = abbardzai = accorai = fare i solchi, le gore. In Ogliastra sa cora la chiamano ùrbidu: termine che ricorre (urvitu) nel CSPS ai capitoli 257 e 413 e 425. Termine presente anche nel voc. dii Spano. Urbitu, ùrvitu forse urbare = tracciare solchi in torno alla città? Vedu “surcu” fagher surcos”. Surcare > assrucài.
Abbruffuddai: il significato è di “gonfiare” come ad esempio dell’acqua che bolle in pentola, in sa pinjàda, in su caldàxu. Attruffuddai(si); abbrubbuddai > anche nel senso di imbroncio, imbronciarsi. “No t’abbruffuddisti”! = non alterarti. Sembrerebbe un termine di origine onomatopeica, che ripete il suono dell’acqua o altro liquido che comincia a bollire in pentola o altro contenitore: (il bambino)“ Mamma, mamma su latti in su paiòlu sind’est abbruffuddàu”!
Abbuai: ha due significati e due etimi diversi. 1) abbuai = il muggire dei bovini, voce onomatopeica; 2) abbuai, da abburare, tardo latino > uro, ussi, ustum, urere = mettere fuoco; abbuau = bruciato.
Abéllu, abélu = lentamente: probabilmente dal greco βέλος, che però significa saetta, veloce, ma preceduto da alfa privativo α- βέλος, diventa lento, non veloce.
Abis, is abis = apicoltura. Ortu de abis (CdL 11°). Casiddus > alveari. (lat. Quasillum). In nuorese moyu, moğğu, moyu anche in Camp. ma il termine designa anche altri recipienti di sughero. Lat. Modus = misura di capacità per contenere cereali o anche legumi. Ma anche misura di terra in agricoltura. Vedi moy o moyu o moi. ( 40 litri circa per le granaglie) in agrimensura unu moy de terra corrisponde a 4 mila mq. Per coprire l’arnia si usa una tsippa, sippa de ortigu. Reya, melareya, arèga, melarèga è il favo (lat. Retula o recla) in camp. anche bresca, dallo spagn. Bresca. Reyare = smelare togliere il miele. Aregài ed anche scinscinai da circinare, latino. Ape, abe, abi, abis. Abi maista = ape regina; abi reìna. Abi mascu il fuco. La larva = pudzone de abes. In camp. abùddu da pullus. Lo sciame = sa trumma de aapes. Scussùra in camp. da excursura lat. Il custode degli alveari = apyarju o abyarju.
Accàbidu, accabidài = ben riempito, riempire sino all’orlo > senz’altro dal latino ad caput = sino al capo, sino all’orlo.
Accayolu: credenzina a muro, propria delle case antiche; ripostiglio a muro: probabilmente da arca, arkedda = piccola cassa o a forma di cassa.
Accuccurai su yù = aggiogare i buoi, vedi yùgu. Is cameddas = dessu juali dessu yùgu.
Accuccurai, preni a cuccuru: riempire sino all’orlo: cuccuru = orlo, vetta, cima; vedi cuccuru.
Acua, acwa, akua: vedi abba.
Aliga: rifiuto, resti da gettar via, prob. da alga.
Allabantzia; allabaisì, s’allabài: attenzione, fare attenzione, avere premura. Dal greco labἔin.
Allayòlu: is allayolus sono le cianfrusaglie ( et.? Da cercare)
Anàdi, enàdi, anàte: anatra, dal latino anatis.
Anğamò Kilissò Kiphanè: vedi Angùli.
Angùli: termine ormai in disuso, che significa focaccia, piccolo pane, un piccolo coccoi con l’uovo ( su coccòi de Pasca), pane di sapa. Dopo le feste pasquali, era ed è d’uso la benedizione delle case: il sacerdote accompagnato da uno o due chierichetti va di casa in casa, nei rioni del paese, munito dell’aspersorio con l’acqua benedetta. Ecco come avveniva ed avviene: appena oltrepassato l’ingresso della casa il sacerdote o uno dei chierichetti o tutti insieme esclamavano, ora non più: “Anğamò Kilissò Kiphanè”, un angùli assu picciòccu, un arriàli assa carcìda”. Per lungo tempo le tre parole “Anğamò Kilissò Kiphanè”, sono rimaste senza significato; lo stesso Wagner nel DES pone punto interrogativo, ma intuisce che si tratta di terminologia bizantina. Infatti si tratta proprio di termini della liturgia bizantina: Αγιασμός Άκολουθία Θεοφάνεια: che si traducono liberamente in “Solenne Benedizione con l’acqua benedetta per la Manifestazione di Dio”: manifestazione di Dio intesa come resurrezione di Cristo, non come sua nascita, in questo caso.
Anima: anima > a fillu de anima = adottatto. Nei tempi antichi l’adozione era una cosa spontanea.
Anniclu: era il puledro di un anno (anniclu) CSPS – 251 > Comporu (acquisto): Conporaili a Comita Murtinu .ij. sollos de vinnia intro d’ecustu cuniatu, et ego deindeli (gli ho dato in cambio)
Annicrinu (anniculum) (centr.) è il terreno a riposo > maggese. Vedi egadu.
Annòsigu = albero che non produce ogni anno.
Annuadroxu, annuigadroxuu: piegatura delle giunture, ad esempio del ginocchio, del gomito, etc.
Annuai: fare il nodo > annodare.
Ap(p)ustis: avverbio = dopo, da pus, depus (sardo antico, presente nei Condaghi - vedi): latino post, greco πούς.
Appustis cras = dopo domani > a-barigadu o cras abarigadu = cras varicatus = dopo domani.
Aramentu (vita rustica) arinju, arindzu, ma anche aronju.
Arare, arai (vita rustica), log. Laorare, laurare.
Aratru, aradu, arau > aratro. L’aratro antico sardo, costituito da un solo pezzo di legno (άροτρον αΰτόγυον in Esiodo) l’aratro primitivo documentato anche dal Lamarmora nel suo “Viaggio in Sardegna”. L’aratro era costituito da su dentàli, antàli, gentàli = il ceppo; s’orbàda, alvàda, olvàta = vomere corto di ferro; sa steva = stiva (bastone verticale); sa maniga o manutza o manunta o manàle o anche sa rughe (croce) Rar. timòna = manubrio; sa buri = la bure, alla quale si aggiogano i buoi, composta da diverse parti, tra cui su pèi e s’acciùnta e su nerbiu, che congiunge il dentale con la bure e sa cotza o cravicca o crapitza, tra su entàli e su nerbiu.
Araxi, arba, avra: arietta, brezza fredda. Dal catalano oratge?
Arbàta, orbàta, orbàda = vomere dell’aratro. Dal latino urbum? Dal lat. Vervactum? Urbum aratri però non indica il vomere, ma la bure curva (asse curvo dell’aratro). Albatus perché lucente? Forse!
Ardzola, arjola, aryola: lat. Areola. Nell’aia i covoni vengono disposti in cerchio. A fai s’arroda. Con le spighe rivolte all’interno > in termini nuoresi goddetzòne o postòryu. In Campidano si dice a fai s’arèga, in Logudoro recla, reya ( sia arega che reya significano anche favo delle api). Naturalmente prima di fare la trebbiatura il terreno viene pulito bene bene > limpyu, limpyu. La trebbiatura è la triula, treula, treulare/i; triulare. Vedi treula.
Arenartzu, arenardzu: da arenarium = terreno sabbioso, arenoso > CSPS, cap. 206 (postura/donazione) > positinke Mariane De Tthori a Sanctu Petru de Silki (segue l’elenco delle cose donate)… e falat (scende) ass’iscla (valle, acquitrino), parthinde (dividendo) s’iscla de Bubui e benit (arriva) assu Monticlu dess’arenariu, etc.
Aria: aria. In latino aura.
Ariseu, arisero/i, eriseo: ieri > heri, hodie, cras (ieri, oggi, domani).
Arrallare-i: ha due significati: 1) ciarlare, andai pida pida, cat. rallar; xarrar, ma per questo esiste il corrispondente campi danese ciacciarrài (vedi). 2) arrallai = (in agricoltura) finire la zappatura, terminare il lavoro, tirare la linea, dal cat. ralla. A nci tirai su juali (vita rustica).
Arrancai: 1) ha il significato di prendere, rubare, arraffare (cat. arrancar); 2) andare con fatica, zoppicare, penosamente (dall’italiano arrancare); 3) odorare, sentire odore di arrancu (putridume), probabilmente dall’italiano rancido).
Arrekèdi: gradire, richiedere (it.)
Arrenconi: > furrungoni (spiringon). > angolo, cantuccio.
Arrenguitzu (ttsu): dev. da arrenguitzai = desiderare, quindi attraente > spa. Aranjuez?
Arrimai: conservare, accostare, appoggiare > spa. Arrimar. Arrimu > luogo in cui si conserva qualcosa, si mette a posto: “Arrimanci is prattus”! = ritira, conserva, metti a posto i piatti.
Arrù, Orruvu, Ruvu, Orrù: rovo > rubus. Arrù crabiu = rubus caprinus > smilax aspera > piscialettu. Altri lo chiamano rosa selvatica (ma è ben diversa); altri ancora pungitopo > sorighina, spina de topis.
Arrumbuai o arrumbulai: rotolare, andar rotolando = andai arumbua, arrumbua, come un masso, come una trottola: in latino c’è rhombus = trottola, pure in greco è ρόμβος (rombo).
Asseliu, assebiu: dev. da asseliai > trovare riposo, calmarsi, fermarsi > assentu.
Assentu: dev. da assentaisi > riposarsi, calmarsi > vedi asseliu.
Assettiai: aggiustare, assettare continua…
Astula, àstua: scheggia, frammento, piccola verga (astua de fusu) > vedi il detto (dicius) : “Truncu de figu, astua de figu”!
Attressillai: tressai, tressillai, andai a tressu, trastiggiai= girare in lungo e in largo in un posto > dal latino transire, transversare
Atturai: (atturati firmu = Stai fermo), dal latino obduro.
Bedustu o bedusta (log.) è il terreno dissodato e coltivato, vedi cortura (camp.).
Beraniles (v. r) arature di beranu, primavera, torrai in manu, qui in Campidano. Barbattu si fa in autunno. Torrai a tres bortas = terza aratura o meglio zappatura(vita rustica).
Bindza, binğa: vinea in latino: la vigna> vite, vino. Assa sardisca e assa catalana. La prima con pali, la seconda con ceppi bassi: tipica del Campidano, per le terre calde, aride e battute dal vento. Preparazione: a fai is fossus; pastinare in log. I filari sono detti is juàlis (da giogo dei buoi); lo spazio tra i filari is pranza, lo spazio per passare il giogo dei buoi o il cavallo con l’aratro. I ceppi distanti 80 cm.l’uno dall’altro. Per ogni piantina un paletto > paboni (da palus) o cerboni > appabonai o accerbonai = piantare i paletti, generalmente di canna. Impiantare la vigna > prantare o prantai sa bindza o binğa. Sa bràbaina o brabanya = sa pettia. (tralcio). S u sarrmentu o sermentu o srementu. La ceppaia = sa cotzìna dessu srementu. Su truncu o rabattsòne. I tralci = sa pértya o péttya; o pudone/i. La gemma = oglu, ogu. I viticci = sos bidighindzos. Is sintzillus. Aratura: di sclzo a scratzai e a cratzai > a torrai terra. Pudare/i a cariadroxa = con un tralcio lungo, con molte gemme; a pudoni, con un tralcio o due corti con due o tre gemme. (gemma = pudone/i pudzone = germoglio). Smammai/re (mammare/i) > a maggio = tagliare i tralci superflui, preparare per l’anno successivo. Tagliare le punte = spuntai o anche scirrai da cirru. Pulire dai pampini superflui = spampinai, spampinai/re, a luglio, agosto. Il grappolo si chiama tròni o meglio butroni o budròni > unu tròni de axina. Il grappolo è formato dagli acini > is pibyonis o pupuyonis. I semi = su pisu o semini. La buccia dell’acino = faddòni o foddòni da follis. Il raspo è sa scovua, iscopa. I racimoli (grapoletti) skrikillonis, šišillonis La vendemmia = binnenna. Accanto a carinnu dallo spagnolo cariňo. I cesti per la raccolta dei grappoli > bayòne (nuor.) > cesto di sughero, o bağğòne; cadinu di canne. Bingiantéri, bindzantèri, è il vignaiolo, cat. vinyader; sa pudaàdza, pudatza, per tagliare i grappoli, ma anche is ferrus de pudài (forbici da potatore). Su laccu di pietra per pigiare i grappoli, sostituito dal tino di legno, sa cubidina, da cuba. Accacigai s’axina, calcai in nuorese. Allukkittai sa carràra dal cat. lukèt = fiammifero = zolfanello. S’umbragu per ristorarsi dal calore (lat. Umbraculum). Trica èl’uva coltivata in pergolato. Parràli in camp. Pesu de axina è il grappolo col suo peso > da pensum. In camp. appikilloni, appicconi, troni, budroni; bangàbi o bangàli quando sono in tanti. Tipi di uve: agratzèra, agratssèra = nera che matura tardi. Bovale/i nera (cat. boval.). Cadalàna = catalana. Caddyu = bianca, caddòsu. Crobixìna = bianca da vino. Galoppu (con molte varietà) = bianca da vino. Giròne/i, girò, dzirone, de Spagna (Geroni > Girolamo?); muscadéddu, moscatello. Arretalàu, retalàdu, cat. retalat. Rottsa o rotza o arròtza= sic. Rozza > nera rosseggiante. Tintìllu, tzintzilosu, (tinteggiant, tingente da mischiare ad altri vini rossi).vernaccia , granacci, carnaccia > spagn. Garnacha. Agreste, arèsti, agrastu etc. (selvatica?); manca remunjàu, arremunjàu > bianca simile al nuragus, ma con grappoli più piccoli.
Boes, bois, I Bovini. Boi mascu, bacca femmina. Viclu o vicru = vitellu = vitello. Noéddu = novello. Mallòru, malloreddu; mağğòlu, majone; orrui = novello. Tentorju di circa due anni. Adulto = boe o trau.Tràila = giovenca che non ha ancora partorito. Seddalitzu, pronto ad essere domato, ma anche pronto alla monta. Lunatica = sterile = istoyca. Bestiamine rude; bestia mini arrùi = selvatico, arèsti. Un giovane toro si doma aggiogandolo insieme ad uno già domato. Togliere dalla mamma = smammai, ma anche stitai = togliere dalla tetta della mamma. Baccas arèstis, quelle allo stato brado; baccas mulidròxas (mulidròdzas)= da mungere, quelle da stalla. Murgere, mulgere, mulliri = mungere. Mungidroxu o mungidrodzu = recipiente per mungere detto anche moyu, casiddu (quasillu), etc. Cumone/i è la mandria in comune (comunis); anche masone/i (masonjus); arréi = per lo più gregge. S’accorramentu de is bois (da corru); anche corratzu è da corru; quidni su corratzu de is brebeis è forma scorretta? Marcare il bestiame col fuoco = marcai/re, da marcu = segno. Anche sinnai o istrinare (log.). Pertuntas innìdas, con buco nell’orecchio; iscalar faddìas (sopre l’orecchio); trunca e pertunta con foro e incisione. Rundininas = incisione a forma di rondine. Bocàda prana, con incisione obliqua nelle orecchie. Trunca e juale simile al giogo dei buoi. Rundinina e trunca. Etc. A mallai is bois = castrazione con un piccolo maglio o con due pietre. Madzu o mallu = malleus. Malattie dei bovini: famigiu, prob. Da famex +igiu.?. Capucoddu = paralisi della spalla. Il tafano dei buoi, su muscone/i. oestrus bovis.le larve formano grosse pustole sottocutanee della grandezza di una noce. Si chiamano teyone o pappayone o trabbayoni o caidzone o caiğoni. Et. Pappayoni forse da pappa, pappai; trabayoni forse da trabayai = corrodere? Akkimboe o accorrimboe = aggiogare due buoi di diverso giogo. Ammilandrare o abbilandare = legare il bue ai due piedi dello stesso fianco. Accorrare significa mettere i buoi nel recinto, ma anche prenderli per le corna per farli indietreggiare. Atrubai/re spingerli con forza davanti.
Cannàu, è la canapa, coltivata sin dai tempi antichi: cannavarios sono le piantagioni (nel CSPS > cap. 316 > “Termen d’ecussu saltu de Kalkinàta: ave sa funtana e collat s’ena dessos cannavarios, et essit a bia, etc.
Carru > il carro. Il primo a ruote piene. I due mezzi rotondi della ruota si chiamano in nuorese làsyas (et.?) a Busachi tàdsos o tağğios = pezzi (tagli) > arròdas a tàğğus; è un carro del tutto simile all’antico carro romano > plaustrum. Su tzikkìrriu de is arròdas (virgilio Georg. Stridentia plaustra.) che girano nell’asse. Is partis dessu carru: (camp.) is arròdas, s’àssi e su fusu (dove l’asse s’ingrossa). Il mozzo: sa nughe (noce = la parte centrale della ruota), qui in campidano su buttu (dal cat. boto); sa lòrica o sa càssa (nuor.anello) è il cerchietto di ferro che avvolge l’asse); bussula (log.) buxula (camp.); sa crapika (cavicchia) che tiene ferma sa lòrica (perno) con da una parte sa crai (fermo).I raggi: Rayos, arrayus, rağğos, arrağğus > dal latino radius. I quarti (orli) > cuartos, gavellus, orivettus. I cerchi di ferro > circus o kircus o lamini. I freni (non sempre presenti) sa meccanica, o martinicca (it. Martinicca). N.D.R. sa martinicca o mantinicca è inoltre il nome della scimmia. Parte centrale del carro > sa scala dessu carru. Sa punta dessa scala dessu carru. Sulla parte mediana dessa scala, il fondo del carro, ci sono tre assi > su sterrimentu dessu carru, is bancus, o travessas. Nella parte anteriore dessa scala c’è sa forcìdda. Is ispondas dessu carru > is yacas o geccas etc. o costallas o costànas. Un tipi più piccolo di sponde è detto linğus, lindzos. Per il trasporto di legna da ardere, paglia si usa sa čèrda (camp.) ğèrda (log.), dzèrda (nuor.) fatta di canne e di giunchi intrecciati a forma di grossa cesta. In Campidano nella stagione calda, per ripararsi dal sole, si usa coprire il carro con una stuoia (a forma di botte > sa cuba (botte). Quando si staccano i buoi, per tenere il carro in posizione orizzontale si usa mettere un palo di sostegno al timone (punta) su fusti/e (bastone). In campidano lo si chiama pure su stantaritzu. Sa carrùga, su tragulu, sa tragadorja > soecie di grosso cesto (treggia) che si attacca alla parte posteriore del carro, per trasportare pietre, ceppi o altro. Oppure si usa un tronco scavato sa tuva, trascinato dal carro. Sa panga (vanga) è stata introdotta tardi in Sardegna. Sa marra (zappa); su marroni o marrone per solchi profondi.
Cayone, bayòne, baggione (camp) = anello di cuoio sotto giogo, vedi susuya.
Ciacciarrài, ciacciarra, cat. xarrar. (vedi arrallai) chiacchierare senza misura.
Cilìru o kilìru = setaccio, crivello, per separare le varie parti del grano macinato.
Cillu > il ciglio (vedi srùcu o surcu) nel CSPS è riportato con su kiiu su kiiu dessa vinia (capp. 173, 189) = solco di confine, che noi chiamiamo su cabitzàli (capitium), ma non sempre è un solco (vita rustica). Nel CSPS al capp.. 192, 202, 221, compare anche capithale – vedi) vedi làcana.
Costume dei sardi. Si riconosce nelle statuette nuragiche: il gonnellino a pieghe = sa braga o is bragas; il corpetto di cuoio (da taluni chiamato mastruca), le ghette di orbace ed il berretto sardo > sa mastruca è per noi sa best’’e peddi, di pelle di pecora o capra, che veste si può dire tutto il corpo ad eccezione delle gambe e delle braccia. Costume maschile: la camicia bianca, sopra cui il farsetto di cuoio, ben conciato e lavorato, detto anche su collettu; alla cintola il gonnellino di orbace nero > sa braga o is bragas; sotto is bragas dei calzoni (cartoni o cratzoni)bianchi di lino o anche di orbace; la scarpe, sos iscarpones o is crapittas; la cintola di pelle > sa kintordza, su cintu, o cinta. Sopra le scarpe si portano delle ghette di orbace ner, legate ai polpacci: cas cambittas o cratzas o burtsighinus. Sa best’’e pèddi = giacone o pastrano o cappotto, di pelle di pecora o di capra, generalmente senza maniche, che si porta sopra l’altro vestiario (i pellites). Il cappuccio = su cucuthu o cugutzu o cugudhu (cucuzzolo). La mantella con cappuccio: sa cabbanedda. Sa berrìtta. La camicia = su ğentòne, dal greco κέντουκλον; sa camisa; su peuncu = le calze. Nel Sulcis alla cintola i maschi portano su broccìttu o brotzu o brottsu = un coltello con lama ricurva (saraceno). Il costume femminile: la camicia di lino: linea > lindza, camisa (camisas arrandàdas). Sopra la camicia un corpetto, scollato, con molti ricami: s’imbustu, su cansu, su cassyu, su cossu (camp. dal cat. cos); talvolta affibbiato sopra il petto con su trau, trabu (cat. trau). La stringa per allacciare: sa cordonèra, Sopra camicia e corpetto la giacca: con maniche ricamate e con bottoni d’argento: su gipponi, su dzippòne (cat. gipò o it. giuppone). La gonna: sa gunnèdda (o fardetta > cat. faldeta). La gonnella che si porta d’inverno, di orbace si dice saggione, sa vesta, sa barra, s’orréddu, barrellu, barréddu, s’intenta, su kitàle, Le pieghette sotto la cintola: sa incrispas, , ispundzas, is tabellas, sas tabeddas (vedi il soprannome Tabèdda > siciliano tavèdda = piega). L’orlo inferiore della gonna > ğirone, kirryu (log.) = orlo; ruédu in camp., balzana (anche corso), caméddu (curvo, ondulato)(log.); la tasca = mascula (?); la sottogonna = sa gunneddèdda, faldettèdda. Il grembiule: sa varda, farda, fardetta, s’antalèdda, s’antèdda, su pannu ‘e ananti, sa kinta; un grembiule grossolano di sau (sagum) > su saučču; sa fascadroòxa; le calze: caltsettas, caltzettas, caltzas, miğas, midzas (dal cat. mitja). I legaccioli delle calze = ligas (spagn. Ligas), ligadzu, liga cambas. Le fibbie = čappetta, tibbya; le scarpe: iscarpittas, crapittas: Copricapo, di seta o di lino: tibağğèdda, tibadza, velu; il fazzoletto (per la testa) muccadore/i (de seda) (sp. Mocador). Il costume dei bambini = simile a quello degli adulti, al diminutivo = braghèddas etc. il cappello sa ciccìa, sa tsittsìa. Il costume quotidiano o del giorno di festa: de onnya dì (fittyànu = quotidianus) e de festa. Del lutto: roba de luttu o de dolu, attanau (scuro). Scorruttu da scorruttai = togliersi il lutto. I gioielli: is bottoni de oru o de prata (argento); is anèddus, is bratzalettus, is arracadas, is collanas o cannacas, su cadenatzu (catena lunga) con un ciondolo all’altezza del petto. I capelli: unti d’olio o di grasso, negli uomini e nelle donne al dì di festa (vi sono numerose testimonianze: non mi risulta che questa usanza fosse anche campidanese). La casa sarda (antica): unica stanza con al centro il focolare sempre acceso di giorno e di notte: su foxìli, su fokìle, sa forrèdda; sa domu dessu fumu. (antico megaron): contus de foxìli, contus de forrèdda. La notte ci si addormenta attorno al focolare, tutti, giovani e vecchi, vestiti, sopra le stuoie, istoyas. Nella casa le altre stanza sono dette is apposentus (spa. Aposento). Arredamento: le cassapanche di legno di castagno: is cascias, cašas, is arcas, decorate con intagli vari. Gli armadi, armadiu (italiano), cantaranu o cattaranu (canterano); le sedie di ferula (cadiras de feùrra); sa mesa (spa); spesso al posto della sedia di derula si mette un ceppo: unu truncu. Davanti alla casa; cortile anteriore; sa pratza de ananti, per distinguerla da sa pratzixèdda o posteriore. La legna da ardere: sa biga dessa linna; spesso sistemata sopra 4 grossi tronci forcuti: a frocidda, su cui poggiano altri tronchi, si da fare una tettoia, su cui viene sistemata la legna (sa biga dessa linna), sotto la quale trovano rifugio gli animali e soprattutto i cavalli contro le intemperie. C’è anche il pozzo: su putzu, puttsu e per attingere l’acqua c’è sa carcida (il secchio) di rame o di latta, oppure il secchio di legno: su baddironi o di altro materiale: su poale, puàle. Il secchio si cala con una corda attaccata ad un uncino: s’unkinu, su ganču (it. gancio). I pastori restano solitamente in campagna, in sa tanca e fanno rientro a casa una volta la settimana. Nel territorio del pascolo costruiscono una capanna (pinnètta) di pietre e frasche: dentro, in piccolo c’è l’arredamento della casa normale. Intorno alla pinnètta ci sono varie recinzioni, per il bestiame. Arrostiscono le carni di capretto, agnello o maialetto (divisi a metà) con lo spiedo (senza girarrosto), solitamente di lentischio: s’ispìdu, su schidòni. Mangiano anche le visceri: su matzamini, sa cordula, etc. I sardi usano fare anche l’arrosto con forno sotterraneo: si scava una buca delle dimensioni dell’animale che si vuole arrostire; si riempie la buca di frasche, alle quali si da fuoco, aggiungendo sempre altre frasche sino a che la,buca è incandescente; si forma dentro la buca un giaciglio di faoglie aromatiche, sul quale si depone la carne da arrostire; si ricopre sempre con foglie, con sopra uno stratto di terra, su cui si accendono di nuovo frasche, sino alla cottura, etc.
Crista o krista > sa crista dessu srùcu vedi sùrcu (vita rustica). O su cillu dessu srùcu.
Crudina = terra crùa, sterile, vedi moddi.
Cuàddu, cabaddu, caddu, etc. = cavallo. Ebba egua, cavalla. Puddetru, pulledru, pulletru, puddeccu = pulledro. Ammessardzu, ammissaldzu, stalloni = stallone. Annigu, anniju, anniyu = di un anno. Truma = un branco. Akkettone, misto tra cavallo sardo antico e spagnolo; aca, akkettu akixèdda = cavallo sardo antico > piccolo ma forte e tenace. I cavalli pascolano liberamente, ma solitamente sono legati ai piedi > trebìus, deverbele da trebìri = legare ai piedi (interpedire). Castrare il cavallo = castrai, crastai. Stallone = collùdu (anche per gli altri animali) codzùdu da codza, colla (collea). Mantello = mantu. Albu, biancu, blancu, byancu (albus). Bayu, bağğu = baio, rossastro (badius). Castandzu, castanğu (castaneus). Kerbinu, cerbinu = capra rossiccia (cervinus). Ispano, ispanu = rosso chiaro, sauro. (spanus). Melinu (miele < melinus). Murru = grigio > murinus. Murtinu = sauro scuro. Murtinus, murteus. Nieddu, nigellus. Ghianu, ğanu = morello (κυανός). Piu e pia = cavallo pezzato. Domare il cavallo = ammasedai/re o ammesedai/re = rendere masédu = mansueto. Lo si mette vicino ad un cavallo domato, montato da un cavaliere, fino a farlo stancare ed a mettergli il freno e lo si abitua al morso > imbuccadura o cabessòni o cabussòni (cavezzone). Le briglie constano di redini e morso (barbazzale) s’arbùda. Su murrali (musoliera); sa cabitzina è la funicella che si attacca alle briglie per legare il cavallo in caso di necessità (cavezzina). Andatura > portante = portanti. La sella = sedda o imbastu. La cinghia della sella sa čingra. Gli archi in legno della sella is arcus de innantis e de asségus. Le tavole trasversali della sella = is travessas. Il pettorale = su pettorale/i o su pritali (spagn. Pretal). La sottocoda = sa latranga (log.) s’arretranga o arretranca (camp.). la staffa = s’istaffa, sa staffa. Su sproni, s’isprone = lo sprone. Montare senza sella e staffa= assa nua, assa nuda, nelle corse tradizionali = is cursas de is cuaddus. Cuscino sotto la sella > bàttili, bàttibi (coactile) tra sella e cavallo per non causargli piaghe = friai (cuaddu friatu la sedda gli pitzia) Fricare. Malandrìa = scalfittura del collo del cavallo. Friadura in camp. šemu in log. dal greco σήμα = piaga, guidalesco. Abbilàu = guarito dalla piaga, di nuovo con il pelo. Il sardo monta di solito a cavallo da un rialzo o pietra > sa murèdda, su setzidròxu. Sa bertula = bisaccia (regalo della sposa al fidanzato) > avertula con due tasche sas o is foddes o foddis. Espressioni relative al cavallo: umbrai/re = ripararsi all’ombra; su cuaddu surruskiat = russa; su cuaddu assuppat = respira forte per la stanchezza; su cuaddu cranciat = scalcia; pettinat o marraceddat = batte gli zoccoli per terra; su cuaddu impinnat = s’impenna; s’arreballat = si ribella; ammutriat (log.) è infastidito, quando piega le orecchie. Assakkittat sobbalza; imbrunkiat (da bruncu, brunkioni etc. = inciampa; arrancat o atzoppiat = zoppica; est insuàu = in amore; Ebbarèsu, eguadòsu = stallone in calore; Iscadreddàu o iscadrìu o friàu = piagato. A ferrai su cuaddu = mettere i ferri. Malattie del cavallo. Carbonchio = antrecoru; antecoru, sa malaitta, puntòri, etc.= la maledetta; maladia dessu burtzu = bolso; gutturones, gutturonis = infiammazione della gola; iscussùra = excursura = diarrea; tikki, tikki = ticchio, malattia nervosa; Idrartrosi, bolle alle gambe del cavallo = abbadidza o abbayola o sponja (camp.) o busciucca = vescica, etc.
Drucis > i dolci sardi. Tzippulas (tsippulas) in camp. Sas cathas in log. A carnevale. Buniòlus o bruniòlus ) formaggio, uova, prezzemolo, farina (spa. Bunyòl). Maravilias pasta all’uovo + strutto per la cottura > crugujoneddus de bentu. Oriliettas (a forma di orecchiette) con pasta e miele e strutto > mantegàdas (spagnolo mantecada). Is Casadinas in log (da casu, casàda); is Pardulas in Camp. (forse quadrulas per la forma più o meno quadrata). Is pabassinas, con l’uva passa e con mandorle, noci, mosto cotto (saba), si dice anche su pani de saba = pan di sapa. Turrone (log.) Turroni (camp.) è il torrone. Mustatzollus = mostaccioli, con zucchero e mandorle. Gueffus (buevos de faltriquera)de (incortza o alcortza) a secondo della forma. Tricas (log.)= ciambelle di pasta con burro e sapa. Tziddìnis = torta di ceci e mandorle pestate e condite con miele e sapa o anche pistiddàu da pistillum = pestello. Is pirikittus = (spagnolo periquillo) pasta con l’uovo e burro (strutto), probabilmente a forma piccola pera ? = dolci facili da prepararsi; cotti con lo strutto in padella e poi infarinati di zucchero (buoni per i bambini). In Log. sas furròtulas = piccoli pani di fior di farina (coccòis molto piccoli per noi in Campidano).Is Seàdas o sebàdas = una schiacciata di formaggio vaccino o anche pecorino fresco, anche con farina uova; deriva da seu = sebo per il suo carattere untuoso. S’aligu o alige (log.) un dolce rotondo non lievitato di semola con mandorle, noci, sapa, buccia d’arancia, noce moscata, dal latino alicum. Sos mossos boidos - Meilogu (i morsi vuoti), pasta con burro? A forma di limone cotta con lo strutto. Caskètta (camp.e log.), ciambella con miele e pasta di frumento. Arantzàta (nuor), con mandorle, miele e buccia d’arancia. Su gatò (franc. Gateau) con mandorle (tostate e zucchero).
Egadu (vecladu veclatus = invecchiato) è il terreno a riposo per diversi anni.
Fa, faba, faa, fae, fai è la fava. Tilibba tzilibba, sibiqua, siliqua è il bacello, sa faixèddas sono le favette fresche. Il bacello è detto anche tèga, sa tèga dessa faa. Sa canna dessa faa sono o gambi.
Formaggio: il formaggio di capra è poco apprezzato, si preferisce quello do pecora. Nel sassarese si produce anche il formaggio vaccino. Su casu cottu è sa pira o piredda, de bacca o de berbeke, brebei, berbeghe. La mungitura vera e propria comincia in prinavera, fino a tutto giugno, poi per la calura dei pascoli, ma è abbondante anche d’autunno dopo le prime piogge. Subito dopo la mungitura il latte è versato in una caldaia, su caddaxu (caldarium) su lapyolu o labyolu (da lapidia = piccola caldaia). Si scioglie dentro la caldaia calda il caglio, su callàu, su craccu, su cadzu (coagulum), si rimescola caldo con le mani = murigai/re talvolta con un grosso cucchiaio di legno: su cragallu o sa turùdda o trudda (trulla = mestolo) o truddòni o turuddòni = grosso mestolo. Si versa poi nelle forme = piskeddas o piscèddas (fiscella), aiscu, discu. Le forme vengono messe sopra delle tavole, sopra la caldaia, in modo che possano sgocciolare. Il liquido che ne risulta è il siero = su sòru (sorum o serum); talvolta per accelerare il processo si pongono delle tavole o pezzi di sughero ( sippas de ortigu), sopra le forme e si fa pressione, anche con dei sassi. = appettigadroxu. Quando le forme hanno raggiunto la compattezza, si tolgono e si mettono dentro un grosso mastello di legno (tina o barkile) con la salamoia = salamuya o murya, o murja o murğa = ammuryare, ammurğai. Il formaggio fresco appena tolto dalla salamoia si chiama casu mustyu, mustidu (musteus > Plinio). Le forme si mettono poi a stagionare sui graticci di legno o di canne = cannitzu, cannittsu (cannicius), o cadalettu. Nei tempi antichi, quando ancora non esistevano i recipienti di metallo, i pastori usavano il cavo di una quercia o il sughero (casiddu) e per far bollire il latte mettevano dentro pietre arroventate al fuoco. La forma di formaggio è chiamata petza de casu, ma in tempi più recenti piscèdda o piskèdda de casu. Per preparare su casu cottu si prende il formaggio del giorno precedente, si taglia a pezzi e si mette nella caldaia e si maneggia aggiungendo acqua tiepida sino ad ottenere una pasta compatta, che poi si fa bollire a 100 gradi e poi si preparano le perette che vengono messe ad essiccare in un graticcio sopra il focolare per affumicarle. La capanna del pastore: istatzu, istattu. La pera di formaggio = pira. Casidzolu dice Wagner è il formaggio a pera, ma noi chiamiamo su casidzolu la gruviera, anche per il colore giallo pallido. Alla fine di giugno si prepara il formaggio detto fresa: è un tipico formaggio pressato in un panno per farlo sgocciolare dal siero, poi schiacciato e ridotto in forma piatta e rotonda di circa 20 centimetri di diametro e 7 centimetri di spessore: nel territorio del Gennargento questo tipico formaggio è detto sa panèdda, per la tipica somiglianza col pane. Su recòttu, s’arrescottu, sa ğòtta,, o yòtta = la ricotta (excocta). Il formaggio marci = su casu martzu, su casu ğompagàdu da ğompàre = saltare; su sarta, sarta, su sartaréddu = sono i vermicini che fa il formaggio. Il latte coagulato appena tolto dalla caldaia: su callàu, fruge, latte cadzàdu (coagulato), pretta nel nuorese, cioè pressato. Lo iogurt: latte viskìdu, biskidu, ğagàre, ğàgu, merca (dal latino melca, germanico milk, slavo melkò); a Orani yòddu, ğòddu, ğunketta (it. Giuncata). Bročču = formaggio molle, latte quagliato, (piemontese bruzzu); per mangiarlo i nuoresi adoperano su cràgallu (cucchiaio di legno), corcaryu, corcardzu (coclearium).
Forru, furru > furnus. A forma di cupola, con un ingresso per lo più di forma quadrata > sa bùcca dessu fòrru, o s’ànta dessu forru. Di forma circolare, costruito con mattoni crudi di argilla impastata con paglia (ladrini). Solitamente dentro la casa del contadino; raramente all’aperto > si tratta del tipico forno romano, spesso rappresentato nei dipinti o rilievi delle case o delle tombe dei romani. Per ripulire il forno si usano scope di frasche generalmente di erica, ma anche d’altro arbusto. E’ necessario anche un bastone lungo e biforcuto, su furconi per finire le pulizie. Dopodiché s’inforna il pane con una pala di legno, leggera e ben fatta, munita di lungo manico: sa pala dessu forru; pala de inforrai: bella, grande; pala de sforrai ( per togliere dal forno il pane cotto a puntino), più piccola della precedente.
Frake, falke, falci, farci, sa fràci, per mietere il grano. De messai. Messadordza, messadora. Is messadoris. Actziai o acutzai sa fraci. O anche arrodai = passai in s’arròda de acutzai. O cun sa pedra de acutzai. Sa codi (cotis).
Frementardzu, fromentarju, froméntu: fermento, lievito; fermentum. Vedi conca o scivèdda per impastare. La pasta preparata si lascia fermentare per fare su gilijòni o cimijoni o cimixòni o bimijoni. Etc. (etimo ?) forse da suggere, succhiare, boh ? La pasta veniva mescolata col fermento > matrice, madrike, etc. froméntu in camp. Impastata di nuovo e messa a riposo e coperta con un lenzuolo ed anche una coperta > ŭa mantixèdda ‘e lana, per lievitare > pesai = sollevarsi. Vedi poi fornu o forru o furru.
Furryadròju, giradorju (vita rustica): 1) Dove gira l’aratro, tra un filare e l’altro. 2) Furriadroju = riparo o insieme di capanne dei pastori
Guilardza (log.) pascolare le pecore nel campo per concimarlo: ladamini o ledamini (laetamen) > vedi muntonardzu, muntonarju.
Gurguglione è l’insetto che punge il grano = curculio granarius.
Gussorgia (centr) = anello di cuoio sotto giogo, vedi sususya e cayone.
Illassanai su laore vedi innetyare. Vedi lassana.
Illorare = agganciare il vomere all’anello di cuoio per riportarlo a casa. Virgilio, Ovidio ed Orazio nelle loro opere, riferiscono di questa usanza.
Innetyare/i su laore, su lori = ripulirlo dalle erbacce. Vedi illassanai.
Is lorus, sos loros = le corregge (briglie) fissate alle corna, di cuoio non lavorato. Is corrias.
Istula, stula, stua > sono le stoppie, dove si va a raccogliere le spighe rimaste prima di introdurre le pecore. Lì si va a ispigàre/i = spigolare.
Konca o scivèdda o lacu o iscìvu o anche iskivu o iskiu = scyphus > catinella o bacinella di terracotta > po cummossài = per impastare e lavorare la farina. > concha, conchèdda, o comkèdda, concheddòne o conkeddòne. C’era anche un tavolo di lavoro > sa mèsa de fai su pani. Più avanti sa scivèdda è stata sostituita dalla impastatrice artigianale prima, industriale poi: sa mesa de cummossài > sa macchina de cummossài: questa era tutta in legno, azionata da una ruota, pure in legno, che a sua volta girava tramite una cinghia applicata ad un motore elettrico.
Làcana, lacanas ( etimo?) = mullonis (cat. mollò) (vedi) = confine, termine (vedi termene) > perda pietra di confine lacana, mulloni (vita rustica).
Lana: si lava con sapone =samunare. Si batte con su battidòri, un bastone. Poi viene scardassata, con pettini d ferro (su pettiri de ferru) e poi carminata (lat. carminare) cramiàda con la forcella = sa frocìdda de linna o cannùga. Poi fibàda = filata col fuso, cun su fusu, composto da una testina (coca de fusu) e da un piccola asta, astula de fusu. Incannugai/re = inconnocchiare. Sa muscula è il fusaiolo o di legno o di piombo, su loduru, turulu, turuleddu, su girottu o birottu, furryeddu, su baddadòri, sa ruledda. In cima la capo del fuso si trova un piccolo gancio, su ganciu, su gamu, pitzu de fusu, mùscula, sa filadora (la filatrice): imbolicai o imbodiai è l’azione di avvolgere la lana nel fuso, e attortigliare, trociri, trotoxai. Trofigare, tortsinai, torquere, come era in latino. La lana filata si chiama filoni o filondzu o filonğu o fibonğu. Come ola lana di pecora viene lavorato anche il lino ed il bisso (da nacchera): altro non è che il filo ricavato dai filamenti con cui le nacchere s’attaccano al fondo del mare. Col bisso(di origine fenicia) si facevano tessuti pregiati. Il bisso si lavora in Sardegna e soprattutto nella zona di Sant’Antioco, ancora oggi, anche per la ricchezza del suo mare di pinna nobilis, pescata in grande quantità nel suo mare, i cui filamenti setacei (bisso) si attaccano al fondo del mare. Tali filamenti vengono lavorati come i cirroni di lino. Ne viene una stoffa di color rame. Ne ricavavano finissime sottovesti. Per ogni sottoveste occorrevano all’incirca 900 code di “pinna nobilis”, la cui filatura costava una lira circa ogni cento: prezzo molto caro, ma per un tessuto assai pregiato. Il gomitolo di lana si chiama gromuru o grominu o lòmburu, lomburéddu = glomulus. Una matassa è detta: medàssa o madassa o anche ferrata o bangadzu o ingaldzu o attsòla: mataxa. Per formare le matasse si usa l’aspo (un bastone di legno affusolato con due aste di ferro infisse trasversalmente nel legno ad una certa distanza l’una dall’altra e diametralmente opposte, attorno alle quali si avvolge il filo = annaspyai = avvolgere il filo. ma si usa anche un arcolaio di legno: su bindaluo kindalu, o dringalu o šolitrama (camp.). La Sardegna era ricca di telai per la tessitura (1895 > 4.388 telai su 18.848 del campo nazionale). Allomburai = formare i gomitoli > lomburu o lomuru o anche ğomulu, da ğomo = gomitolo. Tessere = tessiri, tessere; tessidori. Tendere i fili sul telai = ordiri, ordire, bordire si stamene, su stamini. La trama = sa trama. Il telaio o su telaiu, su telardzu, su trebaxu, su trobaxu (telarium). Le parti superiori orizzontali: sas puntas, sos bigadones, is takkeris, sas taccas. I panconi inferiori: sas naes, sos bancos, is bancus. I 4 pali verticali (montanti): sas manuntsas o is manuntsas o manuntzas. I subbi: sos insubros, is surbyus ( sono asticelle che uniscono i montanti laterali). Su broccu o roccu è il perno che fissa il subbio, nel quale si mette la tessitrice), detto anche serradroxu o akkirryadrordzu. La spada del telaio: s’ispada, o anche manuntza o su pertuntu perché perforata (la spada); nei fori va un succhiello per bloccare la spada al punto desiderato: su puntu. Per fissare la trama si usa il pettine: su pettini. I licci sono detti sos litsos, is litzus. I pedali, per alzare o abbassare i licci sono le peanas (pedane) o calculas o crapula. La spola: sa spola o s’ispola: formata da un pezzo di canna, cannéddu o cannèdda, attorna a cui si avvolge il filo usando s’ispoladore (strumento con asta di ferro e disco di legno) detto anche su faicannéddus o umpidroxu (da umpiri, preniri, preni = riempire). La spola piena si chiama ispolu, istècca, stècca, stìccu. L’asticciola di ferro dell’incannatoio si chiama fustigu. Fagher ispola, fagher cannèddus. Mettere in ordine i fili = ispittsare o ispitssicare. La bozzima per ungere i fili si chiama cadansu, da cadansare o cadassare. In camp. si chiama cola: donai sa colla a is telas. Il t5aglio intero di panno o di lino si chiama tesone, istesa, artziada, tirada (sin. Di estesa). Il penero è detto burdza, buldza, gurğa, urğa (in camp.), burra, Il penero in camp. = pindulu. Il panno di lana che si tesse in casa e si tinge generalmente di nero si chiama orbace, orbaci > albache negli statuti sassaresi (cap. 30). In camp. lo si chiama furési o fresi o foresi > probabilmente da forensem. La lana di orbace, che in natura è bianca, come la lana delle pecore, viene tinta di colore nero con una erba sarda detta su truiscu, o trobiscu, o trubusu, dal latino turbiscus, altrimenti detto àmbulu = una tinta di colore nero.
Laore, labòre, lori = grano seminato. (labor).
Làssana = senape selvatica. Vedi illassanai.
Lea, lei de terra > gleba. Kreba, kerba, kerva, keba.
Linu su linu, era coltivato in quasi tutta la Sardegna, generalmente in piccole estensioni (d’uso familiare). A maggio quando ingiallisce si taglia e si mette a seccare (assolyai) per qualche giorno poi si pesta> a mallai su linu > su malladroxu ( da non confondere con la castrazione dei vitelli). Poi i mazzi di lino liberati dai semi si mettono in ammollo > ammoddiare/i su linu. Le fibre poi vengono pettinate > a pettonai su linu cu su pettini de ferru. A iscadrai/re su linu (log. ma anche camp.) Poi viene pestato > arganai (dal greco άργανα), organai su linu o anche pistai. La gramola è il telaio(di legno) per lavorare il lino. La gramola è munita di coltello e piedi. I rimasugli sono la coatza o lisca (log.) ossu dessu linu (Camp.) La fibra del lino ricavata dall’interno della corteccia è comunemente chiamata tiglio = enas o filamentus, filamentos. Un fascio di filamenti si chiama coridzone Log. cirru o cirroni in camp.
Marrare + deverb. Marra zappa, marrone, caipponi/e = zappone.
Mentòsu, mentosa = terra che non produce ogni anno.
Messai : una manàda, che si può afferrare con una mano; tres manàdas = una perra; tres perras u’ manùgu o manùga o manugru, o manùcru = covone (manuculum); cinque manugus o manga = una màniga; is manigas in gruppi di nove, vengono ammucchiate nel campo. Ne fanno is muntonis, Ammuntonare, fagher sa bica > fai sa biga. Il grano poi viene portato nell’aia (vedi ardzola, arjola aryola., a carru ‘e bois.
Moddi = terra fertile (mollis). Moddàna.
Mola dessu trigu > asinaria, a molenti. Era generalmente di tufo grigiastro. Le varie parti della macina: sa tauledda = intelaiatura a forma di croce, sa ruke. Is bittas = strisce di cuoio che reggono la tramoggia. Su moyòlu o mayòlu, o maggiòlu Lat.modiolus. o s’imbùdu, perché a forma d’imbuto. Sa cratzòla o catsoledda, perché a forma di pantofola, per versare il grano. Sa mola de asutta di forma convessa. In camp. È detta anche pabàdula o pabadulu: fabàdu > palatulu > palato. Le due mole = molas o pera. Cussa de asutta = su coru. Is brocconittus o bruccinittus sono i due bastoni del giogo. Su fakkile o faccile o faccibi è la maschera dell’asino.su battìle o battìbi (confronta con titili o tidibi) è il panno o cuscino che si mette sotto il giogo per evitare escoriazioni.
Molere o moliri o mobi su trigu = macinare il grano. Molindzu o molitura o mobidura. Molente è l’asino o anche àinu o bestyolu o burrìccu o anche pulleddu o anche cònkinu. Iscodinare = l’attrito che si sente tra le due pietre quando comincia a mancare il grano. Si usa sa turudda manna = mestolo di legno per aggiungere grano: turudda da turulla, trudda, turra. Tirafarra e scovua per pulire sa mola. Farrìna o farra > pollen, simila e cibarium: pollen era la prima semola, simila la seconda e cibarium la terza (civraxu), rimane la crusca > furfure, poddini, grangia; da noi in Campidano scetti, simbula, civraxèddu e civraxu, poddini. Scètti da exceptis ( per noi significa prima scelta, da exeligere = scegliere). Sòlla è un bruscolo di crusca, ma è anche (mia ipotesi) un fiocco di neve e sollài significa fioccare: la neve sta fioccando > noi diciamo: est sollokendi.
Muntonardzu, muntonaju = mucchio di letame (da rifiuti) per la concimazione delle terre, vedi guilardza.
Ordinacos, odrinagus, redrinacos = le redini.
Ordzu, orju,lat. Hordeum è coltivato in abbondanza anche se in minore quantità del grano.
Orrios, orryos > sono i grossi recipienti di canne intrecciate (cadinos) per conservare il grano. : dal lat. Horreum. Si dice anche pòntina che indica una grossa paniera, crobi manna, che da noi a Gonnosfanadiga è chiamata pobìna. Preta è la stuoia intrecciata a forma di cilindro, per metterci il grano, generalmente col fondo di legno, con una apertura quadrangolare (a qualche centimetro da terra) munita di sportellitu. Il resto utile del grano, la paglia, viene messo in luogo asciutto e coperto, il pagliaio, sa domu dessa palla.
Padroni: maiores, minores; potentes, pauperes.
Pane, pani: su coccòi a pitzus, su scètti, su coccòi de Pasca; sa moddixìna, ( mollis) soffice, più o meno grande, di semola mista a farina, un tempo ed ancora in qualche forno; su civràxu, pane nero, civràxu, cibarium (un tempo era considerato il pane dei poveri, oggi il cosiddetto pane integrale è più caro del pane “bianco”; sa làda, a forma di grossa focaccia, o ciambella, col buco centrale; sa ladixèdda = piccola focaccia, anche senza buco; sa pillonca o pillunca fatta con su scettixèddu, simile al coccòi, ma di seconda categoria: rimane più scuro del coccòi (da còkere) a pitzus (scetti). Su pane carasau, cosiddetto perché viene cotto sotto le braci (accarraxàu de fogu), che i continentali chiamano carta da musica. Le forme del pane sono tante e ogni territorio (Meylogu, Logudoro, Campidano, Sulcis, Goceano, Gallura, etc. ha le sue preferenze. In occasione del Capodanno, San Silvestro, ai ragazzini che vanno di casa in casa a chiedere il “dono”, viene dato un pane tradizionale “su candelèri o candelàrdzu” o candelarju (coccòi qui da noi) accompagnato da noci, nocciole, arance e mandarini, fichi secchi, castagne, caramelle, cioccolati , grano cotto e dolci titpici (trigu cottu e pistokkèddus, po pippìas e picciokkèddus) e pure qualche soldino: “Còscias de perringhéri, coscias de perr’’e ‘oi, nonna fattu nosi d’has su coccòi”? > “Candeléri, Candeléri, còttu nd’ hanti”? Etc. Sa pertusìtta (da pertusu - buco) è una focaccia in cui sono rappresentati in rilievo il gregge, il pastore, la capanna, il cane, etc. che il padrone regala al servo pastore. Sa juàda (da jù) è una focaccia che si regala al massaio: in bassorilievo sono rappresentati gli attrezzi del massaio, il giogo di buoi (juàda), etc. etc. (per la festa dell’Epifania). Il giorno dell’Epifania (Paskinuntu, sa dì de is tres Gurreis) si usa spezzare sa juàda Per le nozze si prepara su coccòi de is isposus (camp.), su pane de is cojuàdos nòus (log.) il pane degli sposi novelli.
Pecore, capre e porci. Berbeghes, crabas e porcos. Gama, ama, bama = gregge. Aggamai = formare un gregge, gammeddare = fare un gemellaggio, unire il bestiame in gruppo, gregge. Kèdda, čèdda, čeddòne/i; kèlla, anticamente era riferito ad un gruppo di persone, generalmente servi; ancora si dice: “Do-y fiat una cèdda de presonas”! C’era molta gente. In log. un piccolo gregge è detto retòlu; rugru è invece una parte del gregge un’arrògu diciamo noi in Campidano. Unu tadzu, unu tallu de berbeghes, de brebeis. Tallu da tallai/re, tadzare = tagliare. E quindi una parte, come arrògu. Masone = un gregge, unu tallu, etc. Masonğus = passaggi o anche recinti per le greggi. Su tallu in cumoni = in comune con altri. Berbeghe, brebei, berbeke, verveke = pecora. Andzone, anğòni (memeke > Nuoro) (anionis) = agnello. Mascru, mascu = maschio della pecora, montone. Berbeke andzàda, brebei anğàda = pecora che ha figliato. Crastadu, crastàu = castrato. Berbecarju, breberaju = pastore, pecoraio. Andzonèddus, anğoneddus = agnellini. Andzoneddu coddetzariu = poppante. Saccaia o saccaya, pecora (anche capra) giovane di due anni circa, che può figliare > sementusa > semel tonsa o da semen > seminare (ma questo andrebbe bene per il maschio): il montone, ma anche l’ariete di oltre due anni è detto bedustu (vetustu), e così anche la femmina >bedusta. Una pecora vecchia e magra è detta tsurra, dallo spagnolo chùrra, per lo più con lo stesso significato. Le pecore matricine sono comunemente dette su madryédu. La pecora sterile si chiama bagantìa o lunatica o siccàdza. Berbeghe andzadina o anğadina è la pecora che sta per figliare. C’è la credenza che per far avere un agnello maschio alla pecora dessu madryédu bisogna legare il testicolo destro, viceversa per avere una femmina. Appena ha figliato la pecora viene munta per togliere il colostro. Quando hanno circa due mesi gli agnelli vengono svezzati. Talvolta co su gàmu o camu o accàmu, che si usa comunque anche per svezzare altri animali. Si tratta di un bastoncino di legno, che viene infilato di traverso nella bocca dell’animale e poi legato al muso dello stesso con una cordicella. Camu o accàmu è deverbale di accàmare. Sa corti è il recinto del bestiame. Detto anche su cuìle de berbekes. In Camp. su medau o madau da metàtu: in greco abbiamo μητάτον, col significato di abitazione o capanna dei pastori. Il recinto si dice anche masone/i. Quando la siccità è troppa si procede a iscatzeddài, cioè a eliminare gli agnelli per alleggerire le pecore. Gli agnelli vengono uccisi sgozzandoli: ispoyolare, irgannare, ispuyare. La lana delle pecore sarde è di cattiva qualità. La tosatura è detta tusòrdzu, tundidròju o tundidura, Le pecore non sopportano l’umidità e l’erba bagnata ne può causare anche la morte: affenai/are. Il freddo umido può causare la polmonite: sa prumonatza. Il diarrea è detto iscussura o iscurrentzia. Il capostorno si dice furiamentu de conca o gaddìndzu o imbaddindzu etc. l’itterizia = su mali dessa figu. La rogna = s’arrunğa (arrùnja). Le capre: capra o crapa o cabra; crabittu , crapittu, crabittu. Il becco: su beccu, su crabu mascu, su crabu mannu. I capretti appena nati si chiamano sos èdos dal lat. haedus. I capretti che vanno col gregge sono detti argallu, argalleddu, ma come per le pecore ci sono i saccayos e i sementosus. Mannalitta è una capra domestica. Il recinto delle capre si dice caprile, cabrìli. Il recinto dei capretti è s’edìbi, edìli anche edàli. La parte coperta del recinto è sa kirrya (cirrus). Kirrìna è la stalla per il maiale. Anche ai capretti, per svezzarli si mette s’accamu o camindzone. Il modo di mungere dei sardi è particolare, perché non si mettono da lato, ma mettono la pecora fra le gambe: è un metodo molto più spiccio e comodo. Caccola delle pecore = làddara, graddara, laddayone, caddayoni, cagalloni. Il porco = su porcu o su procu. Sa mardi o madri = la scrofa. Lofia o lovia in log. Il maschio su verre su erre, su porcu collùdu. Il porco domestico castrato su mayale. Su porkeddu su proceddu, su porceddu = il maialetto. Okkisorju, akkisoryu, accidroju o accìdroğu, o atzidroju. È il maialino da latte = su proceddéddu de latti. Da un anno = annycru. Di circa tre anni = bedustu. Di oltre tre anni = rebedustu. Si distinguono i porci selvatici = arestis, da quelli domestici = mannalìtsos. I primi sono liberi nei boschi e si accoppiano anche coi cinghiali. Il recinto degli animali domestici è il porkìle, porcili, porcibi. Oppure arula, dal latino harula: s’ aurra in camp. Sa kirra o kirrìna è la stalla della scrofa con i maialetti neonati. S’aurra = su sidardzu, da sida (de linna). Riunire i piccoli alla scrofa = arrulai o auurai. Per impedire ai porci di uscire dal recinto si mette al collo un triangolo di legno: sa furca. Per impedire che rimuovano il pavimento, sia di terra che di cemento si mette un anellla al naso. L’infiammazione delle ghiandole del collo è detta su focali o si fogàbi. Il pasclo: sa cussorgia. Spostare il branco da un posto all’altro = tramudai/re. Isinnidare = portare il branco in un pascolo vergine, innidu (per Wagner et, ?); per noi il vocabolo ìnnidu deriva da nidu, nitu = pulito, lindo, vergine, splendente, lucido, dal latino nitidus, deverbale di nitere. Tenere o sorvegliare il bestiame = tentura, devrbale di tentare (temptare); mirare, agodrai. Il guardiano dei maiali è su procaju: da porcarius. Il foraggio: probenda, profenda, provenda, etc. sa ferraina, farraina, sa padza, sa palla, appallai, appadzai. Sida (de linna – insitus); fronja, affronjai, affrondzai, frundza, fronğa. Acqua: Acua, abba, abbare, acuai; abbadorju, abbadordzu, acuadroju (aquatorium). Il macello: makkeddare, maccellai. Le pecore all’ombra: meryagare, ammeryai, meryagu (meridiare); umbragu, umbraculu (umbraculum). Assillo degli insetti: muscone/i, musca. La monta: coberri, coberrere, insuai, insuadura (subare). Le caratteristiche del bestiame: intìnna, intìna, entina, intinnu, bentinnu: de intinna bona = con buone caratteristiche (da insignium ? o da sinnum?). Accabbuttsare = unire le greggi in parti uguali; anche appašai, unire per poi dividere in parti uguali, in pace; attertzai = unione di greggi, in cui uno mette un terzo del capitale e la custodia, l’altro mette due terzi del capitale e si divide poi in parti uguali. Se un pastore perde il gregge per disgrazia, va in giro dagli altri allevatori a chiedere un capo giovane per riformarsi il gregge. Questa usanza patriarcale si chiama ponidùra (da ponere) o paradura, da parare (portare riparo). La razzia di bestiame è cosa quasi normale: sa bardàna.
Portai a cuccuru = portare in testa, etc. vedi cuccuru.
Pula = il guscio del grano. Sa camisa dessu trigu.
Pula = involucro del grano. Kiskìdza, curcùdzu, etc. cerfa in camp.? Ciò che rimane oltre la pula è detto anche ghighìna, ginìna, girìna (genuina).
Puntorju, puntordzu (punctorium) = pungolo vedi strumbulu.
Rau = rado a rau è un modo di seminare (vita rustica), poi si passa all’aratura per coprire il seme.
Roadìa o arrodìa: è un gruppo di piccoli contadini, riuniti insieme per far fronte alle diverse difficoltà. Il termine roadìa o arrodìa per noi (diversamente da molte altre interpretazioni) significa gruppo insieme, come si mettevano “in cerchio > roda” le persone vicino al focolare, al centro della stanza principale, così come era nelle vecchie case contadine o negli ovili (megaron, sala del consiglio, nella Grecia antica, etc.).
Scedetzadòri (šedettsadòri), sedadzadòri, sedattayola, etc. attrezzo per settacciare il grano macinato; specie di telaietto in legno, su cui venivano fatti scivolare (avanti ed indietro) i setacci per separare le varie parti. Scedetzai (camp.)= setacciare. Altrimenti detto settsula > da setziri = sedere. In campi danese anche toèdda o tabèdda = tavoletta. O anche ispoddinayola da ispoddinare = togliere la crusca, poddini. Vedi il verbo cèrriri (cèrri) o kerriri o kerrere = setacciare. vedi šèdattsu > šedattsai = setacciare. vedi cilìru.
Scolca > guardia o gruppo a guardia dei terreni, dei confini. Sostituita in tempi più recenti dai barratzellos, barracelli > dallo spagnolo antico barrachel.
Seminai a broccus o roccus, cun su prantadòri (neo) piuolo. Si dice anche abbròccai > qui imbroccai = che sta nascendo (la piantina) hat imbroccau = ha preso, germoglia.
Sentsu = absenthium, per tenere lontani gli uccelli dal campo di grano. O cun su mustayoni = spaventapasseri. O mamuthone o maymone o mamutzoni (μορμώ). O un paio di corna contro malocchio.
Servi: servu, serbidori. Prestatori d’opera: intregu (per l’intero servizio); latus (per metà del servizio); pede (per un quarto del servizio). I figli della servitù restavano con la madre: natìas, che venivano divisi tra i padroni, dell’uno o dell’altro genitore (pratzidura, parthidura). C’erano anche i liberti o servi liberati: colivertos e lieros. Il padrone : su mère, su mèri, is merixèddus: i figli dei padroni. Proprietari del gregge: cumonarju mannu; cumonarju minore. Il primo possiede la maggior parte del gregge; il secondo lo dirige al pascolo, lo custodisce, lo munge: si divide tutto in parti eguali: a ladus o latus, su fruttu (latus = metà > latus a latus = metà e metà): pastores, pastoris (brbegardzus, breberaxus); crabardzus, crabaxus; boinardzus, boinarxus (baccardzus, baccarxus); porcardzus, procaxus. Nelle aziende, ognuno ha il proprio ruolo: su jubarju > addetto ai gioghi dei buoi; su sottsu o sociu (sotso C.d.L.). Su bastanti, su boarğu, su carradòri, etc.
Sollocare/i: il fioccare della neve; da sollài, solla = fiocco di neve o anche bruscolo di crusca.
Stremenai = togliere i confini > deverbale > stremenau, qui in Campidano lo usiamo per indicare una cosa smisurata > senza termini > smisurato (sterminato).
Strumbulu, stumulu, strumbu = pungolo, stimolo (stimulus)
Susuya, sisuya, sesuya (log) = anello di cuoio siotto giogo, subiuga.
Tenta, a tenta o sa tènta po messai si trigu.
Termene, tremini > termen > atterminare = mettere i confini, mulonis, lacanas (vita rustica). Stremenai, togliare i confini.
Treula, triula. Trebbiatura, a luglio > mes’’e treulas o anche mes’’e arjolas. Viene fatta con buoi o con cavalli, meglio cavalle non domate, che girano, legate intorno ad un palo centrale, fissato al centro dell’aia. Vedi trebutzu o treuttsu = lat. Trifurcium. Durante la trebbiatura il grano vine continuamente rivoltato con una forca di legno a trepunte : su trebùtzu. Nelle piccole aie la trebbiatura è fatte con dei bastoni di legno > a matzùccu. Il grano viene poi ventilato, per purificarlo dalla paglia (pula) > a sbentuliare/i su trigu > con le pale> palas de sbenùliu o po sbentuliai su trigu. Il grano prima di essere riposto nel granaio viene ulteriormente ripulito > a prugai cu cilirus e canisteddas.
Tridicu, trigu (triticum). Trigu appillonau = germogliato. Attuppau = ben folto da tuppa. Lascu = rado. Fallìdu, fertu per la grande umidità = fortemente danneggiato. Anneulàdu per la nebbia o abboadu da borea = nebbia.o anche callìginu o affumadu. O allampyau o affrakijau da fracca = fiamma. Pìssinu = annerito. Secotianu, segutzianu = tardivo.o regadiu o tardivu. Ammustatzau. Sa cànna, sa spiga o sa cabitza. Sa rasta o s’arìsta, o anche puntsa. Sa pula = il guscio del grano. La ricchezza granaria della Sardegna è citata nei testi cartaginesi e soprattutto dagli storici romani. Orazio ricorda le optimae Sardiniae segetes feracis.
Trigu d’india, trigu moriscu, trigu llianu. Granoturco.
Trilogia della vita: la nascita > la partoriente= sa partordza, sa partèra (spa. Partera). Partorire = illierare, illiorare = liberarsi; sfendyai, šindyai, šendyai, etc. parturiri. La nascita = illieramentu, sfendyoxu, šindyoxu, partu. La levatrice > sa levadora. Il padrino > su padrinu, su nonnu (di battesimo > generalmente un prete: nonnu vicariu o prebiteru): il cerimoniale varia a secondo della zona dell’isola. Oggi: il padrino, la madrina > di battesimo, di cresima. L’annuncio della nascita: “Su mèri e sa mèri dhi faint sciri c’ hanti tentu unu pippieddu nou”. Dopo il battesimo > su battyari, su battyamentu, su battidzu, la visita alla puerpera comporta una bevuta. Il battesimo avveniva il giorno della nascita o tutt’al più il giorno successivo (dai registri parrocchiali). La prima uscita della puerpera è di andare in chiesa, col neonato, a purificarsi (???) > a s’incresyai (?), incresyamenrtu. Le nozze: il giovane manda a casa della futura moglie uno o una di fiducia: su paralimpu, sa paralimpa o paraninfu o s’appayadori. Che si reca a casa della futuira sposa: “Ite keres (ita bolis)”? – chiede il padre della sposa, che nel frattempo appare. “Tengu un’andzone (un’anjoni) scappu (sen’’e accappiu) e custa esti s’andzonèdda mia (indicando la ragazza) > Aneddoto: “Teneus unu mallòru foras de tallu e custa iat a essi sa vitelledda nosta”! Risposta del genitore della ragazza: “Nosu is mallorus foras de tallu dhus macellaus”! Erano allevatori di bestiame bovino i parenti del giovanotto e quelli della ragazza. Ma il tono della risposta fu chiaramente scherzoso, perché i due giovani si fidanzarono e poi si sposarono insieme. Si usava fare un vero e proprio banchetto di fidanzamento, al quale partecipavano i parenti delle due parti. In tale giorno si fissava la data delle nozze e la dote che ciascuno doveva portare in coyantza. Il trasferimento della “roba” dalla casa della sposa alla nuova dimora. E se questa non è ancora pronta, si porta tutto alla casa dello sposo: con carri a buoi adornati a festa. Un carro con la biancheria, un altro co i mobili, un altro ancora con le stoviglie e utensili vari, tra cuifusi conocchie e talvolta anche il telaio > su trebàxu. Ad accompagnare il corteo ci sono anche i suonatori di launeddas e ragazze e ragazzi ornati a festa. La più bella del villaggio porta in testa, su un cercine rosso fiamma, la brocca nuova che la futura sposa porterà alla sorgente per prendere l’acqua. La gemte del villaggio getta sullo sposo al suo passaggio, chicchi di grano, in segno di futuro benessere < s’aràtza (la grazia ?) Nella nuova casa si procede a sistemare tutto in ordine. Le nozze: > sa coya, su coyu (da coyare = coniugare), is nuntzas o nuntsas o nuntas (nuptiae). Sono celebrate nella parrocchia della sposa. Ci si reca in due gruppi: dalla casa della sposa e dalla casa dello sposo. All’uscita di chiesa di nuovo il grano (con caramelle, soldini etc. sulla testa degli sposi e del gruppo astante > s’aràtza. Segue un grande banchetto e poi danze, canhti e suoni. La morte: si fa di tutto per morire vicino al proprio focolare: là dove si è nati. Subito dopo la morte, cominciano i lamenti: su teyu, su teu (taedium). Si accende una candela benedetta, si lava il cadavere, lo si veste, si compone il feretro, si depone il morto sopra un tavolo, con i piedi rivolti all’uscita della casa. Cominciano poi le visite di condoglianza; seguono i olamenti funebri (attittidos). I vicini di casa mandano il pranzo di lutto (di conforto > accunortu). Si fa la veglia del morto (a bidzare, a billai = vigilare. Nove giorni dopo il seppellimento si da ai vicini poveri carne e pane (panèddas) > s’ispendyu (distribuzione di cibo) (nevendialis cena). Se uno è stato assassinato, nel posto dove è avvenuta l’uccisione si erige un muro di pietre (murimentu > a bùllu), al quale ogni passante aggiunge una pietra. Il lutto > su corruttu (corruptum). Nei villaggi di pastori e non solo la vedova porta il lutto per tutta la vita. Solo in caso di nuovo matrimonio rinuncia all’abito nero > scorruttu > scorruttai = rinunciare al lutto. L’uomo vedovo si lascia crescere la barba. Fine.
Tua, tula, tuèdda, tulèdda (vita rustica). Aiuola per la semina. Qui da noi attualmente è detto il semenzaio.
Yugu, yùu, yù, ğú = il giogo dei buoi, dal latino iugum. Composto da s’accuccuradroxu, da cuccuru, cranio, testa (qui si tratta del collo).
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ZZRACCONTI del Campidano-a
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- Pubblicato Lunedì, 03 Aprile 2017 06:23
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S’ISULA de PERDA: SA SARDINIA
In s’incumentzu de is tempus, Deus s’Onnypotenti, de criai su mundu iat detzidiu.
Iat insandus pigau unu saccu mannu, mannu e nci iat ghettau aintru tottus is cosas ki dh’iant a essi serbidas po dhu fromai: is isteddus e is pranetas. Assa fini iat fattu sa Terra Nosta: terras, montis, maris, animalis e pillonis, colorus e pistillonis, piscis e babbalòttis de onny’ arratza e de onnya callidadi; e mattas y erbas e froris de centu e de milla coloris.
Issu, cun sa scientzia sua, iat scipiu poni tottu beni, onnya cosa in su logu suu e in su tempus justu, cun sensu e coidau.
Insandus iat fattu s’omini e sa femmina a magini e simbillantzia cosa sua e dhis’ iat nau de castiai e de arrespettai tottus cussas cosas bellas, de si ndi gosai puru perou!
Accabau su treballu, seguru de no hai ‘scaresciu nudda, pigau iat su saccu po si nci torrai a domu sua, su Paradisu.
In su mentris ki fiat passendi asuba dessu Mari Nostu, si ndi fiat accatau ca in su fundu ‘e su saccu dho-y fiat arrescia calincuna cosa: unu bellu muntoni de perda!
“Lobai oh! - si fiat fatu - tottu custa perda e ita mi ndi fatzu”? Tott’in dh’una, pigau iat u’ cabud’’e su saccu e fuliau nci iat a mari tottu cussa perda, cun su pruineddu de su fundu.
Propiu ingunis, in mes’in mesu de cussu mari, abì nci fiat fetta tottu cussa perda, fiat nascia un’isula. E po ispantu mannu, su pruineddu ki dhi fiat fettu asuba, iat fattu bellu ladamini e cussas arroccas, mannas e pitias, si fiant cobertas de mattas, de erbas e de froris de tantis coloris!
Peppi
L'Isola di Pietra: la Sardegna.
All'inizio dei tempi Dio Onnipotente, decise di creare il mondo.
Prese allora un enorme sacco e ci mise dentro tutte le cose che
Gli sarebbero servite per formarlo: le stelle e i pianeti. Alla fine fece la Nostra Terra: le terre, i monti,
i mari, animali ed uccelli, serpenti e gechi, pesci ed insetti di tutte le razze
e di tutte le qualità; e piante ed erbe e fiori di cento e di mille colori.
Lui, con la sua sapienza, seppe mettere tutto bene, ogni cosa al suo posto
e nel tempo giusto, con saggezza e diligenza.
Quindi fece l'uomo e la donna a sua immagine e somiglianza e disse loro
di custodire e di rispettare tutte quelle splendide cose ed inoltre di goderne!
Finito il lavoro, certo di non aver tralasciato niente, prese il sacco per
tornarsene a casa sua, in Paradiso.
Mentre passava sopra il Mediterraneo, si accorse che nel fondo
del sacco era rimasto ancora qualcosa: un bel mucchio di sassi!
" Ma guarda un po' tutte queste pietre"! Esclamò. " Che me ne faccio"?
Improvvisamente capovolse il sacco e gettò a mare quei sassi, con la polvere
del fondo.
Proprio in quel punto, in mezzo a quel mare, dove si sovrapposero tutte quelle
pietre, spuntò un'Isola. E per grande meraviglia, il terriccio che si depositò sopra
si trasformò in fertile letame e quelle rocce, grandi e piccole si ricoprirono di alberi,
di erbe e di fiori di tanti colori.
Peppe
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- Pubblicato Mercoledì, 28 Dicembre 2016 07:16
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LINGUA SARDA A
A > Vocabolario della lingua sarda: termini di raro uso. La vita rustica in Sardegna. (Wagner).
NUOVO: appena iniziato > aperto ai visitatori che vogliano aggiungere tutto quello che ritengono valido per la lingua sarda. > comunicare a > Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Abbruffuddai: il significato è di “gonfiare” come ad esempio dell’acqua che bolle in pentola, in sa pinjàda, in su caldàxu. Attruffuddai(si); abbrubbuddai > anche nel senso di imbroncio, imbronciarsi. “No t’abbruffuddisti”! = non alterarti. Sembrerebbe un termine di origine onomatopeica, che ripete il suono dell’acqua o altro liquido che comincia a bollire in pentola o altro contenitore: (il bambino)“ Mamma, mamma su latti in su paiòlu sind’est abbruffuddàu”!
Abacu: s’abacu = l’abaco (dall’italiano); in latino abacus; in grecoἉbax.; apcar.
Abarigau: dopo domani; appustis cràs; dal latino varicare > Cras varicatum.
Allabantzia; allabaisì, s’allabài: attenzione, fare attenzione, avere premura. Dal greco labἔin.
Abarrai, abarrare = rimanere: dal catalano barràr, embarràr. Probailmente dal greco βαρΰς, peso; έβάρεσα = son gravato, quindi sto.
Abéllu, abélu = lentamente: probabilmente dal greco βέλος, che però significa saetta, veloce, ma preceduto da alfa privativo α- βέλος, diventa lento, non veloce.
Accàbidu, accabidài = ben riempito, riempire sino all’orlo > senz’altro dal latino ad caput = sino al capo, sino all’orlo.
Angùli: termine ormai in disuso, che significa focaccia, piccolo pane, un piccolo coccoi con l’uovo ( su coccòi de Pasca), pane di sapa. Dopo le feste pasquali, era ed è d’uso la benedizione delle case: il sacerdote accompagnato da uno o due chierichetti va di casa in casa, nei rioni del paese, munito dell’aspersorio con l’acqua benedetta. Ecco come avveniva ed avviene: appena oltrepassato l’ingresso della casa il sacerdote o uno dei chierichetti o tutti insieme esclamavano, ora non più: “Anğamò Kilissò Kiphanè”, un angùli assu picciòccu, un arriàli assa carcìda”. Per lungo tempo le tre parole “Anğamò Kilissò Kiphanè”, sono rimaste senza significato; lo stesso Wagner nel DES pone punto interrogativo, ma intuisce che si tratta di terminologia bizantina. Infatti si tratta proprio di termini della liturgia bizantina: Αγιασμός Άκολουθία Θεοφάνεια: che si traducono liberamente in “Solenne Benedizione con l’acqua benedetta per la Manifestazione di Dio”: manifestazione di Dio intesa come resurrezione di Cristo, non come sua nascita, in questo caso.
Anğamò Kilissò Kiphanè: vedi Angùli.
Abba: acqua, intesa anche come pioggia. A mratzu a untùra, a abrìli a trasùra. Abba crasta: vedi Crasta.
Anàdi, enàdi, anàte: anatra, dal latino anatis.
Aria: aria. In latino aura.
Araxi, arba, avra: arietta, brezza fredda. Dal catalano oratge?
Abbuai: ha due significati e due etimi diversi. 1) abbuai = il muggire dei bovini, voce onomatopeica; 2) abbuai, da abburare, tardo latino > uro, ussi, ustum, urere = mettere fuoco; abbuau = bruciato.
Acua, acwa, akua: vedi abba.
Annuadroxu: piegatura delle giunture, ad esempio del ginocchio, del gomito, etc.
Annuai: annodare: da nùu > nodo.
Arrenconi, sininimo di furrungoni???????? da completare.
Arrušàgas (rusciàgas), arrušagòsigu (arrusciàgas, arrusciagòsigu); circai arrušàgas = cercar scuse, pretesti: voce, il cui etimo rimane incerto > in greco abbiamo il termine ρύσα, nel significato di grinza, ruga; ρύσα + άγω = cerco pretesti, scuse. Rimane pur sempre l’incertezza!
LA VITA DEI CAMPI, nella Sardegna del Primo Novecento. (Cap. a parte).
Arare, arai (vita rustica), log. Laorare, laurare.
Aramentu (vita rustica) arinju, arindzu, ma anche aronju.
Beraniles (v. r) arature di beranu, primavera, torrai in manu, qui in Campidano. Barbattu si fa in autunno. Torrai a tres bortas = terza aratura o meglio zappatura.
Tua, tula, tuèdda, tulèdda. Aiuola per la semina. Qui da noi attualmente è detto il semenzaio.
Rau = rado a rau è un modo di seminare, poi si passa all’aratura per coprire il seme.
Abbardzu = fai sa cora per lo scolo delle acque piovane = abbardzai = accorai = fare i solchi, le gore. In Ogliastra sa cora la chiamano ùrbidu: termine che ricorre (urvitu) nel CSPS ai capitoli 257 e 413 e 425. Termine presente anche nel voc. dii Spano. Urbitu, ùrvitu forse urbare = tracciare solchi in torno alla città? Vedu “surcu” fagher surcos”. Surcare > assrucài.
Crista o krista > sa crista dessu srùcu vedi sùrcu. O su cillu dessu srùcu.
Cillu > il ciglio (vedi srùcu o surcu) nel CSPS è riportato con su kiiu su kiiu dessa vinia (capp. 173, 189) = solco di confine, che noi chiamiamo su cabitzàli (capitium), ma non sempre è un solco. Nel CSPS al capp.. 192, 202, 221, compare anche capithale – vedi) vedi làcana.
Làcana, lacanas ( etimo?) = mullonis (cat. mollò) (vedi) = confine, termine (vedi termene) > perda pietra di confine lacana, mulloni.
Termene, tremini > termen > atterminare = mettere i confini, mulonis, lacanas. Stremenai, togliare i confini.
Furryadròju, giradorju. 1) Dove gira l’aratro, tra un filare e l’altro. 2) Furriadroju = riparo o insieme di capanne dei pastori
Arrallare-i: ha due significati: 1) ciarlare, andai pida pida, cat. rallar; xarrar, ma per questo esiste il corrispondente campi danese ciacciarrài (vedi). 2) arrallai = (in agricoltura) finire la zappatura, terminare il lavoro, tirare la linea, dal cat. ralla. A nci tirai su juali.
Ciacciarrài, ciacciarra, cat. xarrar. (vedi arrallai) chiacchierare senza misura.
Stremenai = togliere i confini > deverbale > stremenau, qui in Campidano lo usiamo per indicare una cosa smisurata > senza termini > smisurato (sterminato).
Lea, lei de terra > gleba. Kreba, kerba, kerva, keba.
Marrare + deverb. Marra zappa, marrone, caipponi/e = zappone.
Seminai a broccus o roccus, cun su prantadòri (neo) piuolo. Si dice anche abbròccai > qui imbroccai = che sta nascendo (la piantina) hat imbroccau = ha preso, germoglia.
Aratru, aradu, arau > aratro. L’aratro antico sardo, costituito da un solo pezzo di legno (άροτρον αΰτόγυον in Esiodo) l’aratro primitivo documentato anche dal Lamarmora nel suo “Viaggio in Sardegna”. L’aratro era costituito da su dentàli, antàli, gentàli = il ceppo; s’orbàda, alvàda, olvàta = vomere corto di ferro; sa steva = stiva (bastone verticale); sa maniga o manutza o manunta o manàle o anche sa rughe (croce) Rar. timòna = manubrio; sa buri = la bure, alla quale si aggiogano i buoi, composta da diverse parti, tra cui su pèi e s’acciùnta e su nerbiu, che congiunge il dentale con la bure e sa cotza o cravicca o crapitza, tra su entàli e su nerbiu.
Arbàta, orbàta, orbàda = vomere dell’aratro. Dal latino urbum? Dal lat. Vervactum? Urbum aratri però non indica il vomere, ma la bure curva (asse curvo dell’aratro). Albatus perché lucente? Forse!
Yugu, yùu, yù, ğú = il giogo, dal latino iugum. Composto da s’accuccuradroxu, da cuccuru, cranio, testa (qui si tratta del collo).
Accuccurai su yù = aggiogare i buoi, vedi yùgu. Is cameddas = dessu juali dessu yùgu.
Is lorus, sos loros = le corregge (briglie) fissate alle corna, di cuoio non lavorato. Is corrias.
Susuya, sisuya, sesuya (log) = anello di cuoio siotto giogo, subiuga.
Cayone, bayòne, baggione (camp) = anello di cuoio sotto giogo, vedi susuya.
Gussorgia (centr) = anello di cuoio sotto giogo, vedi sususya e cayone.
Ordinacos, odrinagus, redrinacos = le redini.
Illorare = agganciare il vomere all’anello di cuoio per riportarlo a casa. Virgilio, Ovidio ed Orazio nelle loro opere, riferiscono di questa usanza.
Puntorju, puntordzu (punctorium) = pungolo vedi strumbulu.
Strumbulu, stumulu, strumbu = pungolo, stimolo (stimulus)
Guilardza (log.) pascolare le pecore nel campo per concimarlo: ladamini o ledamini (laetamen) > vedi muntonardzu, muntonarju. Il termine guilardza sta alla base del toponimo Ghilarza.
Muntonardzu, muntonaju = mucchio di letame (da rifiuti) per la concimazione delle terre, vedi guilardza.
Bedustu o bedusta (log.) è il terreno dissodato e coltivato, vedi cortura (camp.).
Annicrinu (anniculum) (centr.) è il terreno a riposo > maggese. Vedi egadu.
Egadu (vecladu veclatus = invecchiato) è il terreno a riposo per diversi anni.
Crudina = terra crùa, sterile, vedi moddi.
Moddi = terra fertile (mollis). Moddàna.
Mentòsu, mentosa = terra che non produce ogni anno.
Annòsigu = albero che non produce ogni anno.
Laore, labòre, lori = grano seminato. (labor).
Innetyare/i su laore, su lori = ripulirlo dalle erbacce. Vedi illassanai.
Illassanai su laore vedi innetyare. Vedi lassana.
Làssana = senape selvatica. Vedi illassanai.
Tridicu, trigu (triticum). Trigu appillonau = germogliato. Attuppau = ben folto da tuppa. Lascu = rado. Fallìdu, fertu per la grande umidità = fortemente danneggiato. Anneulàdu per la nebbia o abboadu da borea = nebbia.o anche callìginu o affumadu. O allampyau o affrakijau da fracca = fiamma. Pìssinu = annerito. Secotianu, segutzianu = tardivo.o regadiu o tardivu. Ammustatzau. Sa cànna, sa spiga o sa cabitza. Sa rasta o s’arìsta, o anche puntsa. Sa pula = il guscio del grano. La ricchezza granaria della Sardegna è citata nei testi cartaginesi e soprattutto dagli storici romani. Orazio ricorda le optimae Sardiniae segetes feracis.
Pula = il guscio del grano. Sa camisa dessu trigu.
Sentsu = absenthium, per tenere lontani gli uccelli dal campo di grano. O cun su mustayoni = spaventapasseri. O mamuthone o maymone o mamutzoni (μορμώ). O un paio di corna contro malocchio.
Frake, falke, falci, farci, sa fràci, per mietere il grano. De messai. Messadordza, messadora. Is messadoris. Actziai o acutzai sa fraci. O anche arrodai = passai in s’arròda de acutzai. O cun sa pedra de acutzai. Sa codi (cotis).
Tenta, a tenta o sa tènta po messai si trigu.
Messai : una manàda, che si può afferrare con una mano; tres manàdas = una perra; tres perras u’ manùgu o manùga o manugru, o manùcru = covone (manuculum); cinque manugus o manga = una màniga; is manigas in gruppi di nove, vengono ammucchiate nel campo. Ne fanno is muntonis, Ammuntonare, fagher sa bica > fai sa biga. Il grano poi viene portato nell’aia (vedi ardzola, arjola aryola., a carru ‘e bois.
Ardzola, arjola, aryola: lat. Areola. Nell’aia i covoni vengono disposti in cerchio. A fai s’arroda. Con le spighe rivolte all’interno > in termini nuoresi goddetzòne o postòryu. In Campidano si dice a fai s’arèga, in Logudoro recla, reya ( sia arega che reya significano anche favo delle api). Naturalmente prima di fare la trebbiatura il terreno viene pulito bene bene > limpyu, limpyu. La trebbiatura è la triula, treula, treulare/i; triulare. Vedi treula.
Treula, triula. Trebbiatura, a luglio > mes’’e treulas o anche mes’’e arjolas. Viene fatta con buoi o con cavalli, meglio cavalle non domate, che girano, legate intorno ad un palo centrale, fissato al centro dell’aia. Vedi trebutzu o treuttsu = lat. Trifurcium. Durante la trebbiatura il grano vine continuamente rivoltato con una forca di legno a trepunte : su trebùtzu. Nelle piccole aie la trebbiatura è fatte con dei bastoni di legno > a matzùccu. Il grano viene poi ventilato, per purificarlo dalla paglia (pula) > a sbentuliare/i su trigu > con le pale> palas de sbenùliu o po sbentuliai su trigu. Il grano prima di essere riposto nel granaio viene ulteriormente ripulito > a prugai cu cilirus e canisteddas.
Pula = involucro del grano. Kiskìdza, curcùdzu, etc. cerfa in camp.? Ciò che rimane oltre la pula è detto anche ghighìna, ginìna, girìna (genuina).
Istula, stula, stua > sono le stoppie, dove si va a raccogliere le spighe rimaste prima di introdurre le pecore. Lì si va a ispigàre/i = spigolare.
Gurguglione è l’insetto che punge il grano = curculio granarius.
Orrios, orryos > sono i grossi recipienti di canne intrecciate (cadinos) per conservare il grano. : dal lat. Horreum. Si dice anche pòntina che indica una grossa paniera, crobi manna, che da noi a Gonnosfanadiga è chiamata pobìna. Preta è la stuoia intrecciata a forma di cilindro, per metterci il grano, generalmente col fondo di legno, con una apertura quadrangolare (a qualche centimetro da terra) munita di sportellitu. Il resto utile del grano, la paglia, viene messo in luogo asciutto e coperto, il pagliaio, sa domu dessa palla.
Roadìa o arrodìa: è un gruppo di piccoli contadini, riuniti insieme per far fronte alle diverse difficoltà. Il termine roadìa o arrodìa per noi (diversamente da molte altre interpretazioni) significa gruppo insieme, come si mettevano “in cerchio > roda” le persone vicino al focolare, al centro della stanza principale, così come era nelle vecchie case contadine o negli ovili (megaron, sala del consiglio, nella Grecia antica, etc.).
Scolca > guardia o gruppo a guardia dei terreni, dei confini. Sostituita in tempi più recenti dai barratzellos, barracelli > dallo spagnolo antico barrachel.
Ordzu, orju,lat. Hordeum è coltivato in abbondanza anche se in minore quantità del grano.
Trigu d’india, trigu moriscu, trigu llianu. Granoturco.
Fa, faba, faa, fae, fai è la fava. Tilibba tzilibba, sibiqua, siliqua è il bacello, sa faixèddas sono le favette fresche. Il bacello è detto anche tèga, sa tèga dessa faa. Sa canna dessa faa sono o gambi.
Mola dessu trigu > asinaria, a molenti. Era generalmente di tufo grigiastro. Le varie parti della macina: sa tauledda = intelaiatura a forma di croce, sa ruke. Is bittas = strisce di cuoio che reggono la tramoggia. Su moyòlu o mayòlu, o maggiòlu Lat.modiolus. o s’imbùdu, perché a forma d’imbuto. Sa cratzòla o catsoledda, perché a forma di pantofola, per versare il grano. Sa mola de asutta di forma convessa. In camp. È detta anche pabàdula o pabadulu: fabàdu > palatulu > palato. Le due mole = molas o pera. Cussa de asutta = su coru. Is brocconittus o bruccinittus sono i due bastoni del giogo. Su fakkile o faccile o faccibi è la maschera dell’asino.su battìle o battìbi (confronta con titili o tidibi) è il panno o cuscino che si mette sotto il giogo per evitare escoriazioni.
Molere o moliri o mobi su trigu = macinare il grano. Molindzu o molitura o mobidura. Molente è l’asino o anche àinu o bestyolu o burrìccu o anche pulleddu o anche cònkinu. Iscodinare = l’attrito che si sente tra le due pietre quando comincia a mancare il grano. Si usa sa turudda manna = mestolo di legno per aggiungere grano: turudda da turulla, trudda, turra. Tirafarra e scovua per pulire sa mola. Farrìna o farra > pollen, simila e cibarium: pollen era la prima semola, simila la seconda e cibarium la terza (civraxu), rimane la crusca > furfure, poddini, grangia; da noi in Campidano scetti, simbula, civraxèddu e civraxu, poddini. Scètti da exceptis ( per noi significa prima scelta, da exeligere = scegliere). Sòlla è un bruscolo di crusca, ma è anche (mia ipotesi) un fiocco di neve e sollài significa fioccare: la neve sta fioccando > noi diciamo: est sollokendi.
Sollocare/i: il fioccare della neve; da sollài, solla = fiocco di neve o anche bruscolo di crusca.
Scedetzadòri (šedettsadòri), sedadzadòri, sedattayola, etc. attrezzo per settacciare il grano macinato; specie di telaietto in legno, su cui venivano fatti scivolare (avanti ed indietro) i setacci per separare le varie parti. Scedetzai (camp.)= setacciare. Altrimenti detto settsula > da setziri = sedere. In campi danese anche toèdda o tabèdda = tavoletta. O anche ispoddinayola da ispoddinare = togliere la crusca, poddini. Vedi il verbo cèrriri (cèrri) o kerriri o kerrere = setacciare. vedi šèdattsu > šedattsai = setacciare. vedi cilìru.
Cilìru o kilìru = setaccio, crivello, per separare le varie parti del grano macinato.
Konca o scivèdda o lacu o iscìvu o anche iskivu o iskiu = scyphus > catinella o bacinella di terracotta > po cummossài = per impastare e lavorare la farina. > concha, conchèdda, o comkèdda, concheddòne o conkeddòne. C’era anche un tavolo di lavoro > sa mèsa de fai su pani. Più avanti sa scivèdda è stata sostituita dalla impastatrice artigianale prima, industriale poi: sa mesa de cummossài > sa macchina de cummossài: questa era tutta in legno, azionata da una ruota, pure in legno, che a sua volta girava tramite una cinghia applicata ad un motore elettrico.
Frementardzu, fromentarju, froméntu: fermento, lievito; fermentum. Vedi conca o scivèdda per impastare. La pasta preparata si lascia fermentare per fare su gilijòni o cimijoni o cimixòni o bimijoni. Etc. (etimo ?) forse da suggere, succhiare, boh ? La pasta veniva mescolata col fermento > matrice, madrike, etc. froméntu in camp. Impastata di nuovo e messa a riposo e coperta con un lenzuolo ed anche una coperta > ŭa mantixèdda ‘e lana, per lievitare > pesai = sollevarsi. Vedi poi fornu o forru o furru.
Forru, furru > furnus. A forma di cupola, con un ingresso per lo più di forma quadrata > sa bùcca dessu fòrru, o s’ànta dessu forru. Di forma circolare, costruito con mattoni crudi di argilla impastata con paglia (ladrini). Solitamente dentro la casa del contadino; raramente all’aperto > si tratta del tipico forno romano, spesso rappresentato nei dipinti o rilievi delle case o delle tombe dei romani. Per ripulire il forno si usano scope di frasche generalmente di erica, ma anche d’altro arbusto. E’ necessario anche un bastone lungo e biforcuto, su furconi per finire le pulizie. Dopodiché s’inforna il pane con una pala di legno, leggera e ben fatta, munita di lungo manico: sa pala dessu forru; pala de inforrai: bella, grande; pala de sforrai ( per togliere dal forno il pane cotto a puntino), più piccola della precedente.
Pane, pani: su coccòi a pitzus, su scètti, su coccòi de Pasca; sa moddixìna, ( mollis) soffice, più o meno grande, di semola mista a farina, un tempo ed ancora in qualche forno; su civràxu, pane nero, civràxu, cibarium (un tempo era considerato il pane dei poveri, oggi il cosiddetto pane integrale è più caro del pane “bianco”; sa làda, a forma di grossa focaccia, o ciambella, col buco centrale; sa ladixèdda = piccola focaccia, anche senza buco; sa pillonca o pillunca fatta con su scettixèddu, simile al coccòi, ma di seconda categoria: rimane più scuro del coccòi (da còkere) a pitzus (scetti). Su pane carasau, cosiddetto perché viene cotto sotto le braci (accarraxàu de fogu), che i continentali chiamano carta da musica. Le forme del pane sono tante e ogni territorio (Meylogu, Logudoro, Campidano, Sulcis, Goceano, Gallura, etc. ha le sue preferenze. In occasione del Capodanno, San Silvestro, ai ragazzini che vanno di casa in casa a chiedere il “dono”, viene dato un pane tradizionale “su candelèri o candelàrdzu” o candelarju (coccòi qui da noi) accompagnato da noci, nocciole, arance e mandarini, fichi secchi, castagne, caramelle, cioccolati , grano cotto e dolci titpici (trigu cottu e pistokkèddus, po pippìas e picciokkèddus) e pure qualche soldino: “Còscias de perringhéri, coscias de perr’’e ‘oi, nonna fattu nosi d’has su coccòi”? > “Candeléri, Candeléri, còttu nd’ hanti”? Etc. Sa pertusìtta (da pertusu - buco) è una focaccia in cui sono rappresentati in rilievo il gregge, il pastore, la capanna, il cane, etc. che il padrone regala al servo pastore. Sa juàda (da jù) è una focaccia che si regala al massaio: in bassorilievo sono rappresentati gli attrezzi del massaio, il giogo di buoi (juàda), etc. etc. (per la festa dell’Epifania). Il giorno dell’Epifania (Paskinuntu, sa dì de is tres Gurreis) si usa spezzare sa juàda Per le nozze si prepara su coccòi de is isposus (camp.), su pane de is cojuàdos nòus (log.) il pane degli sposi novelli.
Drucis > i dolci sardi. Tzippulas (tsippulas) in camp. Sas cathas in log. A carnevale. Buniòlus o bruniòlus ) formaggio, uova, prezzemolo, farina (spa. Bunyòl). Maravilias pasta all’uovo + strutto per la cottura > crugujoneddus de bentu. Oriliettas (a forma di orecchiette) con pasta e miele e strutto > mantegàdas (spagnolo mantecada). Is Casadinas in log (da casu, casàda); is Pardulas in Camp. (forse quadrulas per la forma più o meno quadrata). Is pabassinas, con l’uva passa e con mandorle, noci, mosto cotto (saba), si dice anche su pani de saba = pan di sapa. Turrone (log.) Turroni (camp.) è il torrone. Mustatzollus = mostaccioli, con zucchero e mandorle. Gueffus (buevos de faltriquera)de (incortza o alcortza) a secondo della forma. Tricas (log.)= ciambelle di pasta con burro e sapa. Tziddìnis = torta di ceci e mandorle pestate e condite con miele e sapa o anche pistiddàu da pistillum = pestello. Is pirikittus = (spagnolo periquillo) pasta con l’uovo e burro (strutto), probabilmente a forma piccola pera ? = dolci facili da prepararsi; cotti con lo strutto in padella e poi infarinati di zucchero (buoni per i bambini). In Log. sas furròtulas = piccoli pani di fior di farina (coccòis molto piccoli per noi in Campidano).Is Seàdas o sebàdas = una schiacciata di formaggio vaccino o anche pecorino fresco, anche con farina uova; deriva da seu = sebo per il suo carattere untuoso. S’aligu o alige (log.) un dolce rotondo non lievitato di semola con mandorle, noci, sapa, buccia d’arancia, noce moscata, dal latino alicum. Sos mossos boidos - Meilogu (i morsi vuoti), pasta con burro? A forma di limone cotta con lo strutto. Caskètta (camp.e log.), ciambella con miele e pasta di frumento. Arantzàta (nuor), con mandorle, miele e buccia d’arancia. Su gatò (franc. Gateau) con mandorle (tostate e zucchero).
Carru > il carro. Il primo a ruote piene. I due mezzi rotondi della ruota si chiamano in nuorese làsyas (et.?) a Busachi tàdsos o tağğios = pezzi (tagli) > arròdas a tàğğus; è un carro del tutto simile all’antico carro romano > plaustrum. Su tzikkìrriu de is arròdas (virgilio Georg. Stridentia plaustra.) che girano nell’asse. Is partis dessu carru: (camp.) is arròdas, s’àssi e su fusu (dove l’asse s’ingrossa). Il mozzo: sa nughe (noce = la parte centrale della ruota), qui in campidano su buttu (dal cat. boto); sa lòrica o sa càssa (nuor.anello) è il cerchietto di ferro che avvolge l’asse); bussula (log.) buxula (camp.); sa crapika (cavicchia) che tiene ferma sa lòrica (perno) con da una parte sa crai (fermo).I raggi: Rayos, arrayus, rağğos, arrağğus > dal latino radius. I quarti (orli) > cuartos, gavellus, orivettus. I cerchi di ferro > circus o kircus o lamini. I freni (non sempre presenti) sa meccanica, o martinicca (it. Martinicca). N.D.R. sa martinicca o mantinicca è inoltre il nome della scimmia. Parte centrale del carro > sa scala dessu carru. Sa punta dessa scala dessu carru. Sulla parte mediana dessa scala, il fondo del carro, ci sono tre assi > su sterrimentu dessu carru, is bancus, o travessas. Nella parte anteriore dessa scala c’è sa forcìdda. Is ispondas dessu carru > is yacas o geccas etc. o costallas o costànas. Un tipi più piccolo di sponde è detto linğus, lindzos. Per il trasporto di legna da ardere, paglia si usa sa čèrda (camp.) ğèrda (log.), dzèrda (nuor.) fatta di canne e di giunchi intrecciati a forma di grossa cesta. In Campidano nella stagione calda, per ripararsi dal sole, si usa coprire il carro con una stuoia (a forma di botte > sa cuba (botte). Quando si staccano i buoi, per tenere il carro in posizione orizzontale si usa mettere un palo di sostegno al timone (punta) su fusti/e (bastone). In campidano lo si chiama pure su stantaritzu. Sa carrùga, su tragulu, sa tragadorja > soecie di grosso cesto (treggia) che si attacca alla parte posteriore del carro, per trasportare pietre, ceppi o altro. Oppure si usa un tronco scavato sa tuva, trascinato dal carro. Sa panga (vanga) è stata introdotta tardi in Sardegna. Sa marra (zappa); su marroni o marrone per solchi profondi.
Cannàu, è la canapa, coltivata sin dai tempi antichi: cannavarios sono le piantagioni (nel CSPS > cap. 316 > “Termen d’ecussu saltu de Kalkinàta: ave sa funtana e collat s’ena dessos cannavarios, et essit a bia, etc.
Linu su linu, era coltivato in quasi tutta la Sardegna, generalmente in piccole estensioni (d’uso familiare). A maggio quando ingiallisce si taglia e si mette a seccare (assolyai) per qualche giorno poi si pesta> a mallai su linu > su malladroxu ( da non confondere con la castrazione dei vitelli). Poi i mazzi di lino liberati dai semi si mettono in ammollo > ammoddiare/i su linu. Le fibre poi vengono pettinate > a pettonai su linu cu su pettini de ferru. A iscadrai/re su linu (log. ma anche camp.) Poi viene pestato > arganai (dal greco άργανα), organai su linu o anche pistai. La gramola è il telaio(di legno) per lavorare il lino. La gramola è munita di coltello e piedi. I rimasugli sono la coatza o lisca (log.) ossu dessu linu (Camp.) La fibra del lino ricavata dall’interno della corteccia è comunemente chiamata tiglio = enas o filamentus, filamentos. Un fascio di filamenti si chiama coridzone Log. cirru o cirroni in camp.
Bindza, binğa: vinea in latino: la vigna> vite, vino. Assa sardisca e assa catalana. La prima con pali, la seconda con ceppi bassi: tipica del Campidano, per le terre calde, aride e battute dal vento. Preparazione: a fai is fossus; pastinare in log. I filari sono detti is juàlis (da giogo dei buoi); lo spazio tra i filari is pranza, lo spazio per passare il giogo dei buoi o il cavallo con l’aratro. I ceppi distanti 80 cm.l’uno dall’altro. Per ogni piantina un paletto > paboni (da palus) o cerboni > appabonai o accerbonai = piantare i paletti, generalmente di canna. Impiantare la vigna > prantare o prantai sa bindza o binğa. Sa bràbaina o brabanya = sa pettia. (tralcio). S u sarrmentu o sermentu o srementu. La ceppaia = sa cotzìna dessu srementu. Su truncu o rabattsòne. I tralci = sa pértya o péttya; o pudone/i. La gemma = oglu, ogu. I viticci = sos bidighindzos. Is sintzillus. Aratura: di sclzo a scratzai e a cratzai > a torrai terra. Pudare/i a cariadroxa = con un tralcio lungo, con molte gemme; a pudoni, con un tralcio o due corti con due o tre gemme. (gemma = pudone/i pudzone = germoglio). Smammai/re (mammare/i) > a maggio = tagliare i tralci superflui, preparare per l’anno successivo. Tagliare le punte = spuntai o anche scirrai da cirru. Pulire dai pampini superflui = spampinai, spampinai/re, a luglio, agosto. Il grappolo si chiama tròni o meglio butroni o budròni > unu tròni de axina. Il grappolo è formato dagli acini > is pibyonis o pupuyonis. I semi = su pisu o semini. La buccia dell’acino = faddòni o foddòni da follis. Il raspo è sa scovua, iscopa. I racimoli (grapoletti) skrikillonis, šišillonis La vendemmia = binnenna. Accanto a carinnu dallo spagnolo cariňo. I cesti per la raccolta dei grappoli > bayòne (nuor.) > cesto di sughero, o bağğòne; cadinu di canne. Bingiantéri, bindzantèri, è il vignaiolo, cat. vinyader; sa pudaàdza, pudatza, per tagliare i grappoli, ma anche is ferrus de pudài (forbici da potatore). Su laccu di pietra per pigiare i grappoli, sostituito dal tino di legno, sa cubidina, da cuba. Accacigai s’axina, calcai in nuorese. Allukkittai sa carràra dal cat. lukèt = fiammifero = zolfanello. S’umbragu per ristorarsi dal calore (lat. Umbraculum). Trica èl’uva coltivata in pergolato. Parràli in camp. Pesu de axina è il grappolo col suo peso > da pensum. In camp. appikilloni, appicconi, troni, budroni; bangàbi o bangàli quando sono in tanti. Tipi di uve: agratzèra, agratssèra = nera che matura tardi. Bovale/i nera (cat. boval.). Cadalàna = catalana. Caddyu = bianca, caddòsu. Crobixìna = bianca da vino. Galoppu (con molte varietà) = bianca da vino. Giròne/i, girò, dzirone, de Spagna (Geroni > Girolamo?); muscadéddu, moscatello. Arretalàu, retalàdu, cat. retalat. Rottsa o rotza o arròtza= sic. Rozza > nera rosseggiante. Tintìllu, tzintzilosu, (tinteggiant, tingente da mischiare ad altri vini rossi).vernaccia , granacci, carnaccia > spagn. Garnacha. Agreste, arèsti, agrastu etc. (selvatica?); manca remunjàu, arremunjàu > bianca simile al nuragus, ma con grappoli più piccoli.
Abis, is abis = apicoltura. Ortu de abis (CdL 11°). Casiddus > alveari. (lat. Quasillum). In nuorese moyu, moğğu, moyu anche in Camp. ma il termine designa anche altri recipienti di sughero. Lat. Modus = misura di capacità per contenere cereali o anche legumi. Ma anche misura di terra in agricoltura. Vedi moy o moyu o moi. ( 40 litri circa per le granaglie) in agrimensura unu moy de terra corrisponde a 4 mila mq. Per coprire l’arnia si usa una tsippa, sippa de ortigu. Reya, melareya, arèga, melarèga è il favo (lat. Retula o recla) in camp. anche bresca, dallo spagn. Bresca. Reyare = smelare togliere il miele. Aregài ed anche scinscinai da circinare, latino. Ape, abe, abi, abis. Abi maista = ape regina; abi reìna. Abi mascu il fuco. La larva = pudzone de abes. In camp. abùddu da pullus. Lo sciame = sa trumma de aapes. Scussùra in camp. da excursura lat. Il custode degli alveari = apyarju o abyarju.
Boes, bois, I Bovini. Boi mascu, bacca femmina. Viclu o vicru = vitellu = vitello. Noéddu = novello. Mallòru, malloreddu; mağğòlu, majone; orrui = novello. Tentorju di circa due anni. Adulto = boe o trau.Tràila = giovenca che non ha ancora partorito. Seddalitzu, pronto ad essere domato, ma anche pronto alla monta. Lunatica = sterile = istoyca. Bestiamine rude; bestia mini arrùi = selvatico, arèsti. Un giovane toro si doma aggiogandolo insieme ad uno già domato. Togliere dalla mamma = smammai, ma anche stitai = togliere dalla tetta della mamma. Baccas arèstis, quelle allo stato brado; baccas mulidròxas (mulidròdzas)= da mungere, quelle da stalla. Murgere, mulgere, mulliri = mungere. Mungidroxu o mungidrodzu = recipiente per mungere detto anche moyu, casiddu (quasillu), etc. Cumone/i è la mandria in comune (comunis); anche masone/i (masonjus); arréi = per lo più gregge. S’accorramentu de is bois (da corru); anche corratzu è da corru; quidni su corratzu de is brebeis è forma scorretta? Marcare il bestiame col fuoco = marcai/re, da marcu = segno. Anche sinnai o istrinare (log.). Pertuntas innìdas, con buco nell’orecchio; iscalar faddìas (sopre l’orecchio); trunca e pertunta con foro e incisione. Rundininas = incisione a forma di rondine. Bocàda prana, con incisione obliqua nelle orecchie. Trunca e juale simile al giogo dei buoi. Rundinina e trunca. Etc. A mallai is bois = castrazione con un piccolo maglio o con due pietre. Madzu o mallu = malleus. Malattie dei bovini: famigiu, prob. Da famex +igiu.?. Capucoddu = paralisi della spalla. Il tafano dei buoi, su muscone/i. oestrus bovis.le larve formano grosse pustole sottocutanee della grandezza di una noce. Si chiamano teyone o pappayone o trabbayoni o caidzone o caiğoni. Et. Pappayoni forse da pappa, pappai; trabayoni forse da trabayai = corrodere? Akkimboe o accorrimboe = aggiogare due buoi di diverso giogo. Ammilandrare o abbilandare = legare il bue ai due piedi dello stesso fianco. Accorrare significa mettere i buoi nel recinto, ma anche prenderli per le corna per farli indietreggiare. Atrubai/re spingerli con forza davanti.
Cuàddu, cabaddu, caddu, etc. = cavallo. Ebba egua, cavalla. Puddetru, pulledru, pulletru, puddeccu = pulledro. Ammessardzu, ammissaldzu, stalloni = stallone. Annigu, anniju, anniyu = di un anno. Truma = un branco. Akkettone, misto tra cavallo sardo antico e spagnolo; aca, akkettu akixèdda = cavallo sardo antico > piccolo ma forte e tenace. I cavalli pascolano liberamente, ma solitamente sono legati ai piedi > trebìus, deverbele da trebìri = legare ai piedi (interpedire). Castrare il cavallo = castrai, crastai. Stallone = collùdu (anche per gli altri animali) codzùdu da codza, colla (collea). Mantello = mantu. Albu, biancu, blancu, byancu (albus). Bayu, bağğu = baio, rossastro (badius). Castandzu, castanğu (castaneus). Kerbinu, cerbinu = capra rossiccia (cervinus). Ispano, ispanu = rosso chiaro, sauro. (spanus). Melinu (miele < melinus). Murru = grigio > murinus. Murtinu = sauro scuro. Murtinus, murteus. Nieddu, nigellus. Ghianu, ğanu = morello (κυανός). Piu e pia = cavallo pezzato. Domare il cavallo = ammasedai/re o ammesedai/re = rendere masédu = mansueto. Lo si mette vicino ad un cavallo domato, montato da un cavaliere, fino a farlo stancare ed a mettergli il freno e lo si abitua al morso > imbuccadura o cabessòni o cabussòni (cavezzone). Le briglie constano di redini e morso (barbazzale) s’arbùda. Su murrali (musoliera); sa cabitzina è la funicella che si attacca alle briglie per legare il cavallo in caso di necessità (cavezzina). Andatura > portante = portanti. La sella = sedda o imbastu. La cinghia della sella sa čingra. Gli archi in legno della sella is arcus de innantis e de asségus. Le tavole trasversali della sella = is travessas. Il pettorale = su pettorale/i o su pritali (spagn. Pretal). La sottocoda = sa latranga (log.) s’arretranga o arretranca (camp.). la staffa = s’istaffa, sa staffa. Su sproni, s’isprone = lo sprone. Montare senza sella e staffa= assa nua, assa nuda, nelle corse tradizionali = is cursas de is cuaddus. Cuscino sotto la sella > bàttili, bàttibi (coactile) tra sella e cavallo per non causargli piaghe = friai (cuaddu friatu la sedda gli pitzia) Fricare. Malandrìa = scalfittura del collo del cavallo. Friadura in camp. šemu in log. dal greco σήμα = piaga, guidalesco. Abbilàu = guarito dalla piaga, di nuovo con il pelo. Il sardo monta di solito a cavallo da un rialzo o pietra > sa murèdda, su setzidròxu. Sa bertula = bisaccia (regalo della sposa al fidanzato) > avertula con due tasche sas o is foddes o foddis. Espressioni relative al cavallo: umbrai/re = ripararsi all’ombra; su cuaddu surruskiat = russa; su cuaddu assuppat = respira forte per la stanchezza; su cuaddu cranciat = scalcia; pettinat o marraceddat = batte gli zoccoli per terra; su cuaddu impinnat = s’impenna; s’arreballat = si ribella; ammutriat (log.) è infastidito, quando piega le orecchie. Assakkittat sobbalza; imbrunkiat (da bruncu, brunkioni etc. = inciampa; arrancat o atzoppiat = zoppica; est insuàu = in amore; Ebbarèsu, eguadòsu = stallone in calore; Iscadreddàu o iscadrìu o friàu = piagato. A ferrai su cuaddu = mettere i ferri. Malattie del cavallo. Carbonchio = antrecoru; antecoru, sa malaitta, puntòri, etc.= la maledetta; maladia dessu burtzu = bolso; gutturones, gutturonis = infiammazione della gola; iscussùra = excursura = diarrea; tikki, tikki = ticchio, malattia nervosa; Idrartrosi, bolle alle gambe del cavallo = abbadidza o abbayola o sponja (camp.) o busciucca = vescica, etc.
Pecore, capre e porci. Berbeghes, crabas e porcos. Gama, ama, bama = gregge. Aggamai = formare un gregge, gammeddare = fare un gemellaggio, unire il bestiame in gruppo, gregge. Kèdda, čèdda, čeddòne/i; kèlla, anticamente era riferito ad un gruppo di persone, generalmente servi; ancora si dice: “Do-y fiat una cèdda de presonas”! C’era molta gente. In log. un piccolo gregge è detto retòlu; rugru è invece una parte del gregge un’arrògu diciamo noi in Campidano. Unu tadzu, unu tallu de berbeghes, de brebeis. Tallu da tallai/re, tadzare = tagliare. E quindi una parte, come arrògu. Masone = un gregge, unu tallu, etc. Masonğus = passaggi o anche recinti per le greggi. Su tallu in cumoni = in comune con altri. Berbeghe, brebei, berbeke, verveke = pecora. Andzone, anğòni (memeke > Nuoro) (anionis) = agnello. Mascru, mascu = maschio della pecora, montone. Berbeke andzàda, brebei anğàda = pecora che ha figliato. Crastadu, crastàu = castrato. Berbecarju, breberaju = pastore, pecoraio. Andzonèddus, anğoneddus = agnellini. Andzoneddu coddetzariu = poppante. Saccaia o saccaya, pecora (anche capra) giovane di due anni circa, che può figliare > sementusa > semel tonsa o da semen > seminare (ma questo andrebbe bene per il maschio): il montone, ma anche l’ariete di oltre due anni è detto bedustu (vetustu), e così anche la femmina >bedusta. Una pecora vecchia e magra è detta tsurra, dallo spagnolo chùrra, per lo più con lo stesso significato. Le pecore matricine sono comunemente dette su madryédu. La pecora sterile si chiama bagantìa o lunatica o siccàdza. Berbeghe andzadina o anğadina è la pecora che sta per figliare. C’è la credenza che per far avere un agnello maschio alla pecora dessu madryédu bisogna legare il testicolo destro, viceversa per avere una femmina. Appena ha figliato la pecora viene munta per togliere il colostro. Quando hanno circa due mesi gli agnelli vengono svezzati. Talvolta co su gàmu o camu o accàmu, che si usa comunque anche per svezzare altri animali. Si tratta di un bastoncino di legno, che viene infilato di traverso nella bocca dell’animale e poi legato al muso dello stesso con una cordicella. Camu o accàmu è deverbale di accàmare. Sa corti è il recinto del bestiame. Detto anche su cuìle de berbekes. In Camp. su medau o madau da metàtu: in greco abbiamo μητάτον, col significato di abitazione o capanna dei pastori. Il recinto si dice anche masone/i. Quando la siccità è troppa si procede a iscatzeddài, cioè a eliminare gli agnelli per alleggerire le pecore. Gli agnelli vengono uccisi sgozzandoli: ispoyolare, irgannare, ispuyare. La lana delle pecore sarde è di cattiva qualità. La tosatura è detta tusòrdzu, tundidròju o tundidura, Le pecore non sopportano l’umidità e l’erba bagnata ne può causare anche la morte: affenai/are. Il freddo umido può causare la polmonite: sa prumonatza. Il diarrea è detto iscussura o iscurrentzia. Il capostorno si dice furiamentu de conca o gaddìndzu o imbaddindzu etc. l’itterizia = su mali dessa figu. La rogna = s’arrunğa (arrùnja). Le capre: capra o crapa o cabra; crabittu , crapittu, crabittu. Il becco: su beccu, su crabu mascu, su crabu mannu. I capretti appena nati si chiamano sos èdos dal lat. haedus. I capretti che vanno col gregge sono detti argallu, argalleddu, ma come per le pecore ci sono i saccayos e i sementosus. Mannalitta è una capra domestica. Il recinto delle capre si dice caprile, cabrìli. Il recinto dei capretti è s’edìbi, edìli anche edàli. La parte coperta del recinto è sa kirrya (cirrus). Kirrìna è la stalla per il maiale. Anche ai capretti, per svezzarli si mette s’accamu o camindzone. Il modo di mungere dei sardi è particolare, perché non si mettono da lato, ma mettono la pecora fra le gambe: è un metodo molto più spiccio e comodo. Caccola delle pecore = làddara, graddara, laddayone, caddayoni, cagalloni. Il porco = su porcu o su procu. Sa mardi o madri = la scrofa. Lofia o lovia in log. Il maschio su verre su erre, su porcu collùdu. Il porco domestico castrato su mayale. Su porkeddu su proceddu, su porceddu = il maialetto. Okkisorju, akkisoryu, accidroju o accìdroğu, o atzidroju. È il maialino da latte = su proceddéddu de latti. Da un anno = annycru. Di circa tre anni = bedustu. Di oltre tre anni = rebedustu. Si distinguono i porci selvatici = arestis, da quelli domestici = mannalìtsos. I primi sono liberi nei boschi e si accoppiano anche coi cinghiali. Il recinto degli animali domestici è il porkìle, porcili, porcibi. Oppure arula, dal latino harula: s’ aurra in camp. Sa kirra o kirrìna è la stalla della scrofa con i maialetti neonati. S’aurra = su sidardzu, da sida (de linna). Riunire i piccoli alla scrofa = arrulai o auurai. Per impedire ai porci di uscire dal recinto si mette al collo un triangolo di legno: sa furca. Per impedire che rimuovano il pavimento, sia di terra che di cemento si mette un anellla al naso. L’infiammazione delle ghiandole del collo è detta su focali o si fogàbi. Il pasclo: sa cussorgia. Spostare il branco da un posto all’altro = tramudai/re. Isinnidare = portare il branco in un pascolo vergine, innidu (per Wagner et, ?); per noi il vocabolo ìnnidu deriva da nidu, nitu = pulito, lindo, vergine, splendente, lucido, dal latino nitidus, deverbale di nitere. Tenere o sorvegliare il bestiame = tentura, devrbale di tentare (temptare); mirare, agodrai. Il guardiano dei maiali è su procaju: da porcarius. Il foraggio: probenda, profenda, provenda, etc. sa ferraina, farraina, sa padza, sa palla, appallai, appadzai. Sida (de linna – insitus); fronja, affronjai, affrondzai, frundza, fronğa. Acqua: Acua, abba, abbare, acuai; abbadorju, abbadordzu, acuadroju (aquatorium). Il macello: makkeddare, maccellai. Le pecore all’ombra: meryagare, ammeryai, meryagu (meridiare); umbragu, umbraculu (umbraculum). Assillo degli insetti: muscone/i, musca. La monta: coberri, coberrere, insuai, insuadura (subare). Le caratteristiche del bestiame: intìnna, intìna, entina, intinnu, bentinnu: de intinna bona = con buone caratteristiche (da insignium ? o da sinnum?). Accabbuttsare = unire le greggi in parti uguali; anche appašai, unire per poi dividere in parti uguali, in pace; attertzai = unione di greggi, in cui uno mette un terzo del capitale e la custodia, l’altro mette due terzi del capitale e si divide poi in parti uguali. Se un pastore perde il gregge per disgrazia, va in giro dagli altri allevatori a chiedere un capo giovane per riformarsi il gregge. Questa usanza patriarcale si chiama ponidùra (da ponere) o paradura, da parare (portare riparo). La razzia di bestiame è cosa quasi normale: sa bardàna. Il formaggio: il formaggio di capra è poco apprezzato, si preferisce quello do pecora. Nel sassarese si produce anche il formaggio vaccino. Su casu cottu è sa pira o piredda, de bacca o de berbeke, brebei, berbeghe. La mungitura vera e propria comincia in prinavera, fino a tutto giugno, poi per la calura dei pascoli, ma è abbondante anche d’autunno dopo le prime piogge. Subito dopo la mungitura il latte è versato in una caldaia, su caddaxu (caldarium) su lapyolu o labyolu (da lapidia = piccola caldaia). Si scioglie dentro la caldaia calda il caglio, su callàu, su craccu, su cadzu (coagulum), si rimescola caldo con le mani = murigai/re talvolta con un grosso cucchiaio di legno: su cragallu o sa turùdda o trudda (trulla = mestolo) o truddòni o turuddòni = grosso mestolo. Si versa poi nelle forme = piskeddas o piscèddas (fiscella), aiscu, discu. Le forme vengono messe sopra delle tavole, sopra la caldaia, in modo che possano sgocciolare. Il liquido che ne risulta è il siero = su sòru (sorum o serum); talvolta per accelerare il processo si pongono delle tavole o pezzi di sughero ( sippas de ortigu), sopra le forme e si fa pressione, anche con dei sassi. = appettigadroxu. Quando le forme hanno raggiunto la compattezza, si tolgono e si mettono dentro un grosso mastello di legno (tina o barkile) con la salamoia = salamuya o murya, o murja o murğa = ammuryare, ammurğai. Il formaggio fresco appena tolto dalla salamoia si chiama casu mustyu, mustidu (musteus > Plinio). Le forme si mettono poi a stagionare sui graticci di legno o di canne = cannitzu, cannittsu (cannicius), o cadalettu. Nei tempi antichi, quando ancora non esistevano i recipienti di metallo, i pastori usavano il cavo di una quercia o il sughero (casiddu) e per far bollire il latte mettevano dentro pietre arroventate al fuoco. La forma di formaggio è chiamata petza de casu, ma in tempi più recenti piscèdda o piskèdda de casu. Per preparare su casu cottu si prende il formaggio del giorno precedente, si taglia a pezzi e si mette nella caldaia e si maneggia aggiungendo acqua tiepida sino ad ottenere una pasta compatta, che poi si fa bollire a 100 gradi e poi si preparano le perette che vengono messe ad essiccare in un graticcio sopra il focolare per affumicarle. La capanna del pastore: istatzu, istattu. La pera di formaggio = pira. Casidzolu dice Wagner è il formaggio a pera, ma noi chiamiamo su casidzolu la gruviera, anche per il colore giallo pallido. Alla fine di giugno si prepara il formaggio detto fresa: è un tipico formaggio pressato in un panno per farlo sgocciolare dal siero, poi schiacciato e ridotto in forma piatta e rotonda di circa 20 centimetri di diametro e 7 centimetri di spessore: nel territorio del Gennargento questo tipico formaggio è detto sa panèdda, per la tipica somiglianza col pane. Su recòttu, s’arrescottu, sa ğòtta,, o yòtta = la ricotta (excocta). Il formaggio marci = su casu martzu, su casu ğompagàdu da ğompàre = saltare; su sarta, sarta, su sartaréddu = sono i vermicini che fa il formaggio. Il latte coagulato appena tolto dalla caldaia: su callàu, fruge, latte cadzàdu (coagulato), pretta nel nuorese, cioè pressato. Lo iogurt: latte viskìdu, biskidu, ğagàre, ğàgu, merca (dal latino melca, germanico milk, slavo melkò); a Orani yòddu, ğòddu, ğunketta (it. Giuncata). Bročču = formaggio molle, latte quagliato, (piemontese bruzzu); per mangiarlo i nuoresi adoperano su cràgallu (cucchiaio di legno), corcaryu, corcardzu (coclearium). La Lana: si lava con sapone =samunare. Si batte con su battidòri, un bastone. Poi viene scardassata, con pettini d ferro (su pettiri de ferru) e poi carminata (lat. carminare) cramiàda con la forcella = sa frocìdda de linna o cannùga. Poi fibàda = filata col fuso, cun su fusu, composto da una testina (coca de fusu) e da un piccola asta, astula de fusu. Incannugai/re = inconnocchiare. Sa muscula è il fusaiolo o di legno o di piombo, su loduru, turulu, turuleddu, su girottu o birottu, furryeddu, su baddadòri, sa ruledda. In cima la capo del fuso si trova un piccolo gancio, su ganciu, su gamu, pitzu de fusu, mùscula, sa filadora (la filatrice): imbolicai o imbodiai è l’azione di avvolgere la lana nel fuso, e attortigliare, trociri, trotoxai. Trofigare, tortsinai, torquere, come era in latino. La lana filata si chiama filoni o filondzu o filonğu o fibonğu. Come ola lana di pecora viene lavorato anche il lino ed il bisso (da nacchera): altro non è che il filo ricavato dai filamenti con cui le nacchere s’attaccano al fondo del mare. Col bisso(di origine fenicia) si facevano tessuti pregiati. Il bisso si lavora in Sardegna e soprattutto nella zona di Sant’Antioco, ancora oggi, anche per la ricchezza del suo mare di pinna nobilis, pescata in grande quantità nel suo mare, i cui filamenti setacei (bisso) si attaccano al fondo del mare. Tali filamenti vengono lavorati come i cirroni di lino. Ne viene una stoffa di color rame. Ne ricavavano finissime sottovesti. Per ogni sottoveste occorrevano all’incirca 900 code di “pinna nobilis”, la cui filatura costava una lira circa ogni cento: prezzo molto caro, ma per un tessuto assai pregiato. Il gomitolo di lana si chiama gromuru o grominu o lòmburu, lomburéddu = glomulus. Una matassa è detta: medàssa o madassa o anche ferrata o bangadzu o ingaldzu o attsòla: mataxa. Per formare le matasse si usa l’aspo (un bastone di legno affusolato con due aste di ferro infisse trasversalmente nel legno ad una certa distanza l’una dall’altra e diametralmente opposte, attorno alle quali si avvolge il filo = annaspyai = avvolgere il filo. ma si usa anche un arcolaio di legno: su bindaluo kindalu, o dringalu o šolitrama (camp.). La Sardegna era ricca di telai per la tessitura (1895 > 4.388 telai su 18.848 del campo nazionale). Allomburai = formare i gomitoli > lomburu o lomuru o anche ğomulu, da ğomo = gomitolo. Tessere = tessiri, tessere; tessidori. Tendere i fili sul telai = ordiri, ordire, bordire si stamene, su stamini. La trama = sa trama. Il telaio o su telaiu, su telardzu, su trebaxu, su trobaxu (telarium). Le parti superiori orizzontali: sas puntas, sos bigadones, is takkeris, sas taccas. I panconi inferiori: sas naes, sos bancos, is bancus. I 4 pali verticali (montanti): sas manuntsas o is manuntsas o manuntzas. I subbi: sos insubros, is surbyus ( sono asticelle che uniscono i montanti laterali). Su broccu o roccu è il perno che fissa il subbio, nel quale si mette la tessitrice), detto anche serradroxu o akkirryadrordzu. La spada del telaio: s’ispada, o anche manuntza o su pertuntu perché perforata (la spada); nei fori va un succhiello per bloccare la spada al punto desiderato: su puntu. Per fissare la trama si usa il pettine: su pettini. I licci sono detti sos litsos, is litzus. I pedali, per alzare o abbassare i licci sono le peanas (pedane) o calculas o crapula. La spola: sa spola o s’ispola: formata da un pezzo di canna, cannéddu o cannèdda, attorna a cui si avvolge il filo usando s’ispoladore (strumento con asta di ferro e disco di legno) detto anche su faicannéddus o umpidroxu (da umpiri, preniri, preni = riempire). La spola piena si chiama ispolu, istècca, stècca, stìccu. L’asticciola di ferro dell’incannatoio si chiama fustigu. Fagher ispola, fagher cannèddus. Mettere in ordine i fili = ispittsare o ispitssicare. La bozzima per ungere i fili si chiama cadansu, da cadansare o cadassare. In camp. si chiama cola: donai sa colla a is telas. Il t5aglio intero di panno o di lino si chiama tesone, istesa, artziada, tirada (sin. Di estesa). Il penero è detto burdza, buldza, gurğa, urğa (in camp.), burra, Il penero in camp. = pindulu. Il panno di lana che si tesse in casa e si tinge generalmente di nero si chiama orbace, orbaci > albache negli statuti sassaresi (cap. 30). In camp. lo si chiama furési o fresi o foresi > probabilmente da forensem. La lana di orbace, che in natura è bianca, come la lana delle pecore, viene tinta di colore nero con una erba sarda detta su truiscu, o trobiscu, o trubusu, dal latino turbiscus, altrimenti detto àmbulu = una tinta di colore nero. Il costume dei sardi. Si riconosce nelle statuette nuragiche: il gonnellino a pieghe = sa braga o is bragas; il corpetto di cuoio (da taluni chiamato mastruca), le ghette di orbace ed il berretto sardo > sa mastruca è per noi sa best’’e peddi, di pelle di pecora o capra, che veste si può dire tutto il corpo ad eccezione delle gambe e delle braccia. Costume maschile: la camicia bianca, sopra cui il farsetto di cuoio, ben conciato e lavorato, detto anche su collettu; alla cintola il gonnellino di orbace nero > sa braga o is bragas; sotto is bragas dei calzoni (cartoni o cratzoni)bianchi di lino o anche di orbace; la scarpe, sos iscarpones o is crapittas; la cintola di pelle > sa kintordza, su cintu, o cinta. Sopra le scarpe si portano delle ghette di orbace ner, legate ai polpacci: cas cambittas o cratzas o burtsighinus. Sa best’’e pèddi = giacone o pastrano o cappotto, di pelle di pecora o di capra, generalmente senza maniche, che si porta sopra l’altro vestiario (i pellites). Il cappuccio = su cucuthu o cugutzu o cugudhu (cucuzzolo). La mantella con cappuccio: sa cabbanedda. Sa berrìtta. La camicia = su ğentòne, dal greco κέντουκλον; sa camisa; su peuncu = le calze. Nel Sulcis alla cintola i maschi portano su broccìttu o brotzu o brottsu = un coltello con lama ricurva (saraceno). Il costume femminile: la camicia di lino: linea > lindza, camisa (camisas arrandàdas). Sopra la camicia un corpetto, scollato, con molti ricami: s’imbustu, su cansu, su cassyu, su cossu (camp. dal cat. cos); talvolta affibbiato sopra il petto con su trau, trabu (cat. trau). La stringa per allacciare: sa cordonèra, Sopra camicia e corpetto la giacca: con maniche ricamate e con bottoni d’argento: su gipponi, su dzippòne (cat. gipò o it. giuppone). La gonna: sa gunnèdda (o fardetta > cat. faldeta). La gonnella che si porta d’inverno, di orbace si dice saggione, sa vesta, sa barra, s’orréddu, barrellu, barréddu, s’intenta, su kitàle, Le pieghette sotto la cintola: sa incrispas, , ispundzas, is tabellas, sas tabeddas (vedi il soprannome Tabèdda > siciliano tavèdda = piega). L’orlo inferiore della gonna > ğirone, kirryu (log.) = orlo; ruédu in camp., balzana (anche corso), caméddu (curvo, ondulato)(log.); la tasca = mascula (?); la sottogonna = sa gunneddèdda, faldettèdda. Il grembiule: sa varda, farda, fardetta, s’antalèdda, s’antèdda, su pannu ‘e ananti, sa kinta; un grembiule grossolano di sau (sagum) > su saučču; sa fascadroòxa; le calze: caltsettas, caltzettas, caltzas, miğas, midzas (dal cat. mitja). I legaccioli delle calze = ligas (spagn. Ligas), ligadzu, liga cambas. Le fibbie = čappetta, tibbya; le scarpe: iscarpittas, crapittas: Copricapo, di seta o di lino: tibağğèdda, tibadza, velu; il fazzoletto (per la testa) muccadore/i (de seda) (sp. Mocador). Il costume dei bambini = simile a quello degli adulti, al diminutivo = braghèddas etc. il cappello sa ciccìa, sa tsittsìa. Il costume quotidiano o del giorno di festa: de onnya dì (fittyànu = quotidianus) e de festa. Del lutto: roba de luttu o de dolu, attanau (scuro). Scorruttu da scorruttai = togliersi il lutto. I gioielli: is bottoni de oru o de prata (argento); is anèddus, is bratzalettus, is arracadas, is collanas o cannacas, su cadenatzu (catena lunga) con un ciondolo all’altezza del petto. I capelli: unti d’olio o di grasso, negli uomini e nelle donne al dì di festa (vi sono numerose testimonianze: non mi risulta che questa usanza fosse anche campidanese). La casa sarda (antica): unica stanza con al centro il focolare sempre acceso di giorno e di notte: su foxìli, su fokìle, sa forrèdda; sa domu dessu fumu. (antico megaron): contus de foxìli, contus de forrèdda. La notte ci si addormenta attorno al focolare, tutti, giovani e vecchi, vestiti, sopra le stuoie, istoyas. Nella casa le altre stanza sono dette is apposentus (spa. Aposento). Arredamento: le cassapanche di legno di castagno: is cascias, cašas, is arcas, decorate con intagli vari. Gli armadi, armadiu (italiano), cantaranu o cattaranu (canterano); le sedie di ferula (cadiras de feùrra); sa mesa (spa); spesso al posto della sedia di derula si mette un ceppo: unu truncu. Davanti alla casa; cortile anteriore; sa pratza de ananti, per distinguerla da sa pratzixèdda o posteriore. La legna da ardere: sa biga dessa linna; spesso sistemata sopra 4 grossi tronci forcuti: a frocidda, su cui poggiano altri tronchi, si da fare una tettoia, su cui viene sistemata la legna (sa biga dessa linna), sotto la quale trovano rifugio gli animali e soprattutto i cavalli contro le intemperie. C’è anche il pozzo: su putzu, puttsu e per attingere l’acqua c’è sa carcida (il secchio) di rame o di latta, oppure il secchio di legno: su baddironi o di altro materiale: su poale, puàle. Il secchio si cala con una corda attaccata ad un uncino: s’unkinu, su ganču (it. gancio). I pastori restano solitamente in campagna, in sa tanca e fanno rientro a casa una volta la settimana. Nel territorio del pascolo costruiscono una capanna (pinnètta) di pietre e frasche: dentro, in piccolo c’è l’arredamento della casa normale. Intorno alla pinnètta ci sono varie recinzioni, per il bestiame. Arrostiscono le carni di capretto, agnello o maialetto (divisi a metà) con lo spiedo (senza girarrosto), solitamente di lentischio: s’ispìdu, su schidòni. Mangiano anche le visceri: su matzamini, sa cordula, etc. I sardi usano fare anche l’arrosto con forno sotterraneo: si scava una buca delle dimensioni dell’animale che si vuole arrostire; si riempie la buca di frasche, alle quali si da fuoco, aggiungendo sempre altre frasche sino a che la,buca è incandescente; si forma dentro la buca un giaciglio di faoglie aromatiche, sul quale si depone la carne da arrostire; si ricopre sempre con foglie, con sopra uno stratto di terra, su cui si accendono di nuovo frasche, sino alla cottura, etc.Periodo feudale > Padroni: maiores, minores; potentes, pauperes. Servi: servu, serbidori. Prestatori d’opera: intregu (per l’intero servizio); latus (per metà del servizio); pede (per un quarto del servizio). I figli della servitù restavano con la madre: natìas, che venivano divisi tra i padroni, dell’uno o dell’altro genitore (pratzidura, parthidura). C’erano anche i liberti o servi liberati: colivertos e lieros. Il padrone : su mère, su mèri, is merixèddus: i figli dei padroni. Proprietari del gregge: cumonarju mannu; cumonarju minore. Il primo possiede la maggior parte del gregge; il secondo lo dirige al pascolo, lo custodisce, lo munge: si divide tutto in parti eguali: a ladus o latus, su fruttu (latus = metà > latus a latus = metà e metà): pastores, pastoris (brbegardzus, breberaxus); crabardzus, crabaxus; boinardzus, boinarxus (baccardzus, baccarxus); porcardzus, procaxus. Nelle aziende, ognuno ha il proprio ruolo: su jubarju > addetto ai gioghi dei buoi; su sottsu o sociu (sotso C.d.L.). Su bastanti, su boarğu, su carradòri, etc. La trilogia della vita: la nascita > la partoriente= sa partordza, sa partèra (spa. Partera). Partorire = illierare, illiorare = liberarsi; sfendyai, šindyai, šendyai, etc. parturiri. La nascita = illieramentu, sfendyoxu, šindyoxu, partu. La levatrice > sa levadora. Il padrino > su padrinu, su nonnu (di battesimo > generalmente un prete: nonnu vicariu o prebiteru): il cerimoniale varia a secondo della zona dell’isola. Oggi: il padrino, la madrina > di battesimo, di cresima. L’annuncio della nascita: “Su mèri e sa mèri dhi faint sciri c’ hanti tentu unu pippieddu nou”. Dopo il battesimo > su battyari, su battyamentu, su battidzu, la visita alla puerpera comporta una bevuta. Il battesimo avveniva il giorno della nascita o tutt’al più il giorno successivo (dai registri parrocchiali). La prima uscita della puerpera è di andare in chiesa, col neonato, a purificarsi (???) > a s’incresyai (?), incresyamenrtu. Le nozze: il giovane manda a casa della futura moglie uno o una di fiducia: su paralimpu, sa paralimpa o paraninfu o s’appayadori. Che si reca a casa della futuira sposa: “Ite keres (ita bolis)”? – chiede il padre della sposa, che nel frattempo appare. “Tengu un’andzone (un’anjoni) scappu (sen’’e accappiu) e custa esti s’andzonèdda mia (indicando la ragazza).
ZZRACCONTI del Campidano-b
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- Pubblicato Lunedì, 03 Aprile 2017 06:33
- Scritto da Giuseppe
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Su Soli e sa Sardinia – Su Caragàntzu*
Tanti tempus fait a s'orbescidroxu de una dì de Istadi, su Soli no iat agattau accanta sa Luna, sa sposa sua stimàda. Insaras Issu postu si fiat a dha circai in donnya logu, cun disisperu mannu e cun su coru in trumentu.
Postu si fiat a corrovai in tottu su mundu, terras, maris e montis, in donnya furrungoni, in donnya tuppa, cugutzu e cresura, a perda furriada, alluinendi, cun su luxentori de is arrayus, po fintzas su scuriu dessu sperefundu dessu mari e de is intranyas dessa terra.
Sa Luna invecis, eguèdda callenti, si fiat lassàda imbodrogai me is losingas dessu gurrei mannu de su Limpu, Jovi, trasseri, improseri e coddadori, e cuàda fiat me in cussas tuppas intipidas de Pranasu, stentàda, sa pudrèdda, cun su fancéddu, me in su druciòri dess'apprapùddu e dess'affricòxu mannu.
Su Soli, arrosciu de cumpudai in donnya sperrima dessa terra, dessu mari e dessu celu, iat detzidiu de si nci torrai a domu sua. Me in su mentris ki fiat passendi asuba dessu Mari Nostu, biu iat un'isuledda ki dhi fiat praxa meda, meda: " Ita bellixedda - si fiat fatu - jei dha ia a bolli conosci mellus"!
E callau nci fiat in cussa terra limpia e sintzilla e de accanta dhi fiat pàta ancora prus bella. Fiat abarrau ingunis tempus e tempus castiendidha cun ogus amainaus de tanti bellesa e si ndi fiat innamorau. Fintzas a candu sa tribulìa dessu disiju dhi iat postu scinitzu mannu e su coru in trumentu. Insaras dha iat preguntàda a sposa. A Issa, prena de bregunja, dhi fiant fattas is trempas arrubias ke fogu. Ma alluinàda e amainàda dessu luxentori e dessa bellesa de cussu sposu, assa pregunta no iat scipiu nai ca no! E dh'iat cuntzediu is gratzias e tottus is prendas allogadas me is intranyas suas de tanti tempus cun virtudi e coidau.
Su Soli, prenu de amori e de disiju, balla ca si dho-y fiat stentau in cussu gosu mannu, iscarescendi po fintzas sa Luna.
E-y cussa Isula ìnnida fiat bessìda sempri prus bella.
De insaras, donny'annu cussu Sposu luxenti, abarrat tempus e tempus ingunis, accanta de-y cussa Sposa bregunjosa; e dha castiat e dha stimat sempri de prus amainau dessa bellesa sua.
E de insandus, candu arribat Beranu, Cussa Terra luxenti, po ispantu mannu, me is pranus, me is serras e me is cuccurus si prenit de unu 'yaxi de frorixeddus grogus e bellus ki parrint solixeddus, poita ca assimbillant assu babbu insoru. - su caragàntzu – Peppi
* > etimologia:
Su Caragantzu (caraganthu) il crisantemo selvatico - Etimologia della parola.
Il vocabolo deriva dal greco χαλχάνϑον (χαλχάνϑεμον) (calcàntzon – calcàltzemon) > voc. Greco – italiano Del Rocci. Il cui significato è il fiore del colore del rame, da χαλχός > rame. In alternativa a χρυσάνϑος o χρυσάνϑεμον = il fiore del colore dell’oro, da χρυσόϚ = oro. Il sardo caragantzu o caraganthu deriva dal greco calcàntzon. In Asia Minore esattamente nell’antica Anatolia, il crisantemo era detto non il fiore del colore dell’oro, ma il fiore del colore del rame. > calcantzon > calacantzon > caragantzo/u (vedi anche la ricostruzione della parola fatta da Prof. Giulio Paulis).
Traduzione (letterale) in italiano
L'isola del Sole – il crisantemo selvatico.
Tanto tempo fa, all'alba di un giorno d'estate, il Sole non trovò più,
vicino a se, la Luna, sua sposa adorata. Allora si mise a cercarla
in tutti i posti, con grande sconforto e col cuore in angoscia.
Si mise a frugare in tutto il mondo, nelle terre, nei mari e nei monti, in ogni
nascondiglio, in ogni bosco, cespuglio e siepe con accanimento, illuminando,
con la luce intensa dei suoi raggi, persino l'oscurità degli abissi
del mare e delle viscere della terra.
La Luna invece, cavallina in calore, s'era lasciata adescare dalle lusinghe
del grande re dell'Olimpo, Giove, astuto, intrigante e donnaiolo, ed era nascosta
nel folto della macchia del Parnaso, in eccitazione, la puledrina, col concubino,
nel diletto dell'amplesso e della sensualità.
Il Sole, stanco di rovistare in ogni angolo della terra, del mare e del cielo,
decise di tornarsene a casa. Ma mentre transitava sopra il mare
Mediterraneo (Mare Nostrum), scorse un' isola che lo attrasse fortemente:
" Quanto è bella - sospirò - per certo la voglio conoscere meglio"!
E scese in quella terra pura e vergine e da vicino gli apparve
ancora più bella. Rimase tanto tempo ad ammirarla con gli
occhi ammaliati da tanta bellezza e se ne innamorò. Sino a che,
turbato dal desiderio ed in preda al delirio d'amore, decise
di chiederla in sposa. A Lei, piena di trepidazione, le guance
diventarono rosse come il fuoco. Ma illuminata e stregata dallo splendore
e dal fascino di quello sposo, alla domanda non seppe dire di no! E
a Lui concesse le grazie ed i tesori ben custoditi nella sua intimità
da tantissimo tempo con verecondia e diligenza.
Il Sole, pieno d'amore e di desiderio, per certo rimase a lungo preso
da quell'estremo piacere, scordandosi persino della Luna.
E quell'Isola sino a quel momento incontaminata, divenne sempre più bella!
Da allora, tutti gli anni, quel fulgido Sposo, rimane per diverso tempo lì,
vicino alla sua timida adorata; e la guarda e l'ama, sempre più
invaghito dalla sua bellezza.
Sin da quel tempo lontano, quando arriva la Primavera, quella splendida Terra,
quasi per miracolo, nelle valli, nelle colline, nelle montagne, si ricopre interamente
di tantissimi fiorellini gialli e belli, che sembrano piccoli soli, perchè assomigliano
al loro genitore! - su caragàntzu - ( il crisantemo selvatico ).
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